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21 settembre 2002

Stelle dal cielo
trottole di fuoco

Popolo enigmatico, ancorato a un atavico animismo - Una straordinaria varietà di maschere - Salda difesa delle proprie tradizioni, con una «filosofia» di pacata saggezza
di Marco Vasta (CAI Brescia)

Vedi anche La regina delle sabbie

Indice

«All'inizio dei tempi le donne Dogon staccavano le stelle dal cielo per darle ai loro bambini. Essi le bucavano con un fuso e facevano girare queste trottole di fuoco per mostrarsi fra loro come funzionava il mondo». Cosi raccontava un Ogon, un vecchio capo, a Marcel Griaule, antropologo che per primo si è spinto fra questo popolo enigmatico. Ed è allo spuntare delle prime stelle che giungiamo a Banana, dopo due ore di marcia sull'altopiano. Una pericolosa discesa in una stretta forra che fende la muraglia ed eccoci ai piedi della «falaise» di Bandiagara, enorme parete di arenaria, lunga più di duecento chilometri, che attraversa il territorio Dogon.

L'immensa pianura del Séno, divisa fra Mali e Niger, si estende a perdita d'occhio quando all'alba il brusio del villaggio, adagiato su groppe rocciose, ci invoglia ad inoltrarci fra le case.

Il gigantesco scenario di pietra gialla incombe sulle case di fango e gli speroni rocciosi sembrano precipitare su le capanne, l'attenzione è subito attratta dalle numerose e strette grotte che punteggiano la parete, alcune chiuse da muretti di fango. Sono le case dei mitici Tellem, «piccoli uomini rossi» forse pigmei, scacciati, circa settecento anni fa, dall'arrivo del Dogon, che ora vi depositano i loro morti, issando il feretro lungo le cenge con robuste corde di fibre.

Popolo misterioso ed inavvicinabile, considerati stregoni ed antropofagi, i Dogon sono rimasti animisti, rispettando l'Islam e combattendolo, come ricordano i numerosi feticci fallici incontrati nella «brousse», la boscaglia di arbusti che attraversiamo per giorni costeggiando la falaise da un villaggio all’altro. Ogni aspetto delle vita sociale, domestica ed economica di questo popolo, da sempre unito ai miti della loro complessa cosmogonia: la parola, ogni parola, ha un significato diverso che muta in differenti contesti, il suono diventa presenza fisica dell'entità nominata. Ma non solamente i nomi ed i numeri hanno importanza nella concezione del mondo sviluppata dei Dogon. Ogni oggetto si trasforma da strumento in rappresentazione concrete di concetti astratti; le falangi delle mano non sono solo numeri ma disegnano i rapporti di parentela, un cesto rovesciato rappresenta, con la sua piramide conica tronca, la forma del mondo. La stessa distribuzione spaziale delle case rotonde a questa. simbologia per noi difficile e talvolta incomprensibile.

I vari quartieri di un villaggio rispecchiano l'organizzazione in famiglie ed i clan totemici, ma ad uno studio più attento ci si accorge che anche la topografia del villaggio ha una sue caratteristica dovendo richiamare concettualmente l'immagine di un uomo supino per terra. La case del consiglio, rappresenta la testa ed e a Nord sulla piazza principale, Est ed Ovest le case per le donne mestruate, rotonde come l'utero, rappresentano le mani, a Sud gli altari comuni sono i piedi e le grandi case di famiglia segnano il petto ed d ventre. Ogni quartiere deve rispecchiare questo stesso simbolismo ed ecco altre piazze principali ed altre «toguna».

La «toguna», o «grande riparo», è l'edificio del consiglio degli anziani; il «luogo della parola» è una spessa tettoia di arbusti elevate su base quadrangolare, con pilastri di legno o pietre e adorni di figure stilizzate. I corridoi interni devono essere bassi, nessuno s'alzerà di scatto in preda all'ira; devono essere scomodi per giungere presto a rapide decisioni of dice un vecchio capo, l'unico in questo villaggio di Mali che conosca un po' di francese, che consultiamo senza dover ricorrere alla guida assegnateci dalla polizia per attraversare la zona.

Il nostro giovane interprete, convertito all'Islam, irride a noi ed al nostro colloquio «Tutte frottole per gli studiosi» è il laconico commento. Suo compito e sue preoccupazione maggiore è guidarci lungo i sentieri consentiti agli stranieri e prevenire ogni nostra inavvertita offesa ai costumi del nostri ospiti. Vietate le fotografie delle persone, pena il sacrificio di un montone; pericoloso toccare le pietre sparse nei campi perché potrebbero essere feticci «tabu». Vietato avvicinarsi alle tombe: troppi «antropologi» le hanno saccheggiate con furtive incursioni notturne.

I villaggi che attraversiamo si ripetono per struttura, le viuzze strette fra le case quadrate di fango, spesso diroccate dal tempo, qua e là si ergono le torri cilindriche a due piani dove vengono educati assieme i ragazzini di entrambi i sessi. Stupisce la libertà delle donne Dogon, a confronto con le vicine donne mussulmane. libero il corteggiamento, ammesso il rapporto prematrimoniale, concesso un periodo di prove in cui i coniugi vivono nelle case d'origine. Il matrimonio diventa obbligatorio solo dopo la nascita del secondo figlio.

Ma se l'antropologo impazzisce dalla gioia nello studiare i costumi di questo popolo, ben più immediato è l'entusiasmo suscitato dal partecipare ai momenti collettivi quali i funerali o le danze. Quando la »società delle maschere» si esibisce la vita del villaggio si concentra su questo momento di ritmo e di colore. Un posto di grandissimo rilievo è tenuto, nella simbologia dei Dogon, delle maschere, che contano una ricchissima varietà di tipi. In genere sono rappresentazioni di animali: la lepre, l'antilope, oppure raffigurano i personaggi tradizionali della stessa società Dogon: il capo religioso, le ragazze dei villaggi, il vecchio, oppure mostrano le fattezze delle bellissime donne Peul o Bozo, i vicini di sicura origine etnica differente, essendo i Dogon del Niger sono famosi per la loro bellezza ed i giovani Peul si vantano dei loro lineamenti androgini.

Fra le maschere che più attraggono l'interesse vi è quella che rappresenta la casa più bella del villaggio (anche avendo vari significati) ; è un'asse traforata con i colori classici rosso, bianco e nero, alta fino a cinque metri. Infine la maschera «Kanaga», con la croce di Mali, le braccia volte al cielo ed alla terra per unificarle cui al centro del mondo. Le maschere policrome sono completate da un costume a frange, tinte di rosso, e da monili di conchiglie e vimini intrecciati. Ognuna richiede un diverso passo di danza, quello della maschera kanaga è particolarmente ritmico e selvaggio, ergendosi ora verso il cielo, ora strusciando nella sabbia.

Le maschere sono usate dei membri delle numerose «società» di quartiere in occasione di feste, funerali, riti propiziatori o dietro congruo compenso da parte del visitatori. Sono gli stessi danzatori a scolpirle usando un legno tenero e leggero. Sono quindi fragili e spesso riparate o ridipinte ed alla fine gettate nelle caverne dei Tellem o vendute ai mercanti d'arte che le contrabbandano in Europa dove le maschere raggiungono quotazioni molto alte.

Nell'afa del meriggio l'Ogon non accenna ad interrompere il suo racconto mentre, attorno a noi, sulla piazzetta della toguna i vecchi del villaggio sfilacciano la corteccia di un baobab, si inumidiscono sulle labbra e la attorcigliano costruendo robuste corde. Giunge alla fine la domanda che ogni viaggiatore pone quasi a liberarsi dal senso di colpa: Che ne sarà del tuo popolo? « Il primo Monno ha creato l'ordine dell'universo - risponde l'Ogon fissandoci negli occhi ad uno ad uno - anche i Dogon scompariranno poiché questo è stabilito»

Per saperne di più

Le radici della sabbia
di Marco Aime

Diario Dogon
di Marco Aime

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