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21 settembre 2002
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a colori: Avventure nel Mondo 1 - 2003
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Nella versione su AnM, le note sono sostituite da un ricordo per l'amico
Piero Piazza, compagno di viaggio, per il quale
questo è stato l'ultimo trekking.
trans Himàlaya
Sulle
tracce di Giotto Dainelli
fra i nomadi dell’altopiano tibetano
Marco Vasta – CAI Brescia
“Non fate come i nomadi, che vendono le greggi per costruirsi una casa a Leh. Diverrete come loro, sradicati dalle vostre tradizioni e stranieri nella propria terra”
Le parole del 12° Gyalwang Drukpa, echeggiano nell’ultimo sogno, nel tepore del dormiveglia prima che la luce mi svegli del tutto[1]. È la conferma che questo è il momento giusto per inoltrami nelle valli di Rupshu? Incontreremo i nomadi che vivono in questo remoto altopiano?
Piero, Sonam ed io abbiamo trascorso la notte a Kartse sotto un grande paracadute, versione locale di guest-house. L’aria mattutina dei 4000 metri frizza nelle orecchie e nelle mani, mentre affardelliamo i basti dei quattro cavalli che ci accompagneranno fino al lago Tsomoriri[2]. Accanto agli animali impastoiati, un cartello recita “India is a bouquet, Ladakh a flower in it” e Kartse è un bellissimo petalo.
Non seguiremo il percorso più diretto che svalica di valle in valle, ma un cammino più lungo seguendo le tracce di un diario: “Il valico dello Stàcalung-la (Taglang-La) a circa 5400 metri era forse il più temuto: perché il più alto, non solo, ma perché il più erto sui due opposti fianchi e forse anche il più impervio, sì che una forte nevicata, cancellando le tenui tracce della via, ne può rendere difficile il passaggio. Ieri sera però non avevo più timori”: Così gli appunti di Giotto Dainelli[3] il 29 settembre 1930, e mentre tiro e stringo le corde che legano i bagagli, immagino Fosco Maraini che giovinetto legge queste stesse pagine e sogna il Tibet[4].
Deserto in alta quota
L’alibi per tornare annualmente in Himàlaya me lo sono letteralmente costruito: una scuola nella remotissima valle di Zanskar, sulle pendici settentrionali della Grande Catena. Piccola ai miei occhi, ma in realtà l’edificio più grande della valle[5]. In questa estate 2002, dopo un soggiorno trascorso ad incontrare allievi, genitori ed insegnanti e concordare assieme al Consiglio di amministrazione le linee di sviluppo della scuola nei prossimi due anni, ho dedicato due settimane a me stesso[6]. Mentre il gruppo “Zanskar festival” torna in Italia, sicuramente con lo Zanskar nel cuore, il nostro terzetto si inoltra a piedi nelle zone dove vivono gli ultimi nomadi del Ladakh.
Nello zaino c’è anche un altro libro “Il viaggiatore delle dune”, da poco ripubblicato in Italia[7]. Non è un testo ambientato in Himàlaya ma nel Sahara. Per una curiosa coincidenza (o affinità di interessi), proprio in questi stessi giorni un amico cita Monod per spiegare il nomadismo: “Seppur leggero il nomade ha con sé tutto ciò che gli serve, che è ben poco, Il nomadismo viene spesso visto come un residuo del passato, una tappa evolutiva che ha preceduto la sedentarizzazione. Ma non è così: è per molti popoli il solo sistema di sopravvivere in ambienti fragili, che non consentono uno sfruttamento intensivo delle risorse. Infatti è generalmente legato a economie basate su attività di caccia-raccolta e pastorizia”[8].
Il paragone fra Sahara e Himàlaya sembra improprio, ma le due regioni del globo hanno molte caratteristiche in comune. Le analisi e la poesia di Monod ben si addicono anche all’altopiano tibetano che si estende fino ai deserti del transHimàlaya indiano e kirghiso. Queste regioni di frontiera con il Tibet sono le più alte e le più fredde del Ladakh: il fondovalle è situato a 4200 metri! Sulle piste anticamente percorse dalle carovaniere sono state ricavate solo due strade strategiche che consentono i movimenti dell’armata indiana. Dal nastro asfaltato che congiunge Manali e Leh, ad Upshi una deviazione risale la valle dell’Indo per raggiungere le desolate solitudini della regione di Rupshu.
L’aria è secca, l’ossigeno rarefatto, eppure una popolazione sedentaria abita quassù da secoli nei villaggi di Chumathang, Karzok e Hanlé. La povertà del suolo e l’estrema rarità delle precipitazioni limitano la possibilità della agricoltura a pochissime oasi. Il paesaggio lunare di Rupshu è di una bellezza selvaggia incoronata da cime di nevi eterne che biancheggiano oltre i 5200 metri, limite delle nevi perenni, ma è anche una regione estremamente povera e fra le più sfavorite del Ladakh. All’altezza di 4200 metri ed a 230 chilometri dalla capitale (otto ore di guida) si estende il lago Hanlé, ai piedi del grande monastero che da esso prende nome. Il Kar-Tso, il lago bianco, si trova a 4540 metri e le sue acque bianche, ricche di sale e soda, sono più facilmente raggiungibili dalla strada Leh-Manali mentre ai confini con lo Spiti si estende il Moriri-Tso (4.500 m ) lungo circa 24 chilometri.
Il più grande dei laghi è il Pangong le cui acque blu zaffiro si snodano per ben 64 chilometri in una valle posta fra Rupshu, altopiano Chang-Tang (tr. altopiano del nord) e Tibet. Il vasto bacino si prolunga di altri 110 chilometri oltre la frontiera cinese. Un sistema di laghi dolci o salati ricopriva il Ladakh nelle ere passate.
Nomadi sul tetto del mondo
Rupshu e Chang-Tang sono abitate dai Chang-pa (tr. “quelli del nord”), una delle minoranze del Ladakh. Da secoli occupano l’altopiano dedicandosi alla pastorizia, ma i pascoli sono cosi magri che i pastori Chang-pa devono compiere la transumanza quattro volte all’anno seguendo percorsi circolari ben definiti al fine di utilizzare razionalmente ogni pascolo e meglio accudire yak, montoni e capre che costituiscono la loro unica ricchezza. In questa esistenza magra e stentata, essi si nutrono di latte e carne, integrandoli con farina d’orzo acquistata quando scendono a Leh per scambiare la preziosa lana pashmina. Abili ed audaci cavalieri, i Chang-pa cacciano il kyang, asino selvaggio, la cui carne completa la dieta povera di proteine. D’inverno per i rigori del clima, ma anche d’estate quando una semplice nuvola oscura il sole, la temperatura raggiunge punte negative estreme. Ben lo sanno le sparute guarnigioni militari che nei mesi invernali devono affrontare anche i –35° mentre i nomadi scendono verso valli dal clima meno freddo. In estate essi si riparano sotto i “rebo”, tende di lana che essi stessi tessono e che ornano di code di yak e con tarcén (stendardi di preghiera). La pratica della poliandria e la religione buddhista, i caratteri fisici ed i costumi, testimoniano la loro origine tibetana. In effetti hanno una statura più alta dei Ladakhi ed i visi lunghi ed ovali, i lineamenti fini e delicati, quasi androgini, li distinguono dalle altre etnie della regione. La pettinatura è simile a quella dei Tibetani, i lunghi capelli sono infatti raccolti in due trecce arrotolate attorno alla testa oppure in una sola che scende sulla nuca. Assieme alla “goncia” (la lunga tunica ladakha tessuta con lana tinta di rosso) che portano spesso arrotolata in vita, indossano una lunga camicia dalle maniche ampie e lunghe, un paio di braghe e calzano stivali ricamati, ricavati dalla pelle delle capre e con la suola in cuoio di yak. Per tutti questi elementi i Chang-pa assomigliano all’etnia tibetana dei Kham-pa, che vivono a quasi 2000 chilometri nell’estremità sud-orientale del grande altopiano nella regione del Kham. Anch’essi sono abili cavalieri, indossano un identico costume e prediligono le terre desolate degli altipiani. È quindi probabile che i Ladakhi delle valli dell’Indo siano discendenti da popolazioni emigrate dalle regioni di Ü e Tsang nel Tibet centrale mentre gli antenati del Chang-pa siano venuti da quella del Kham.
Gli sconvolgimenti politici degli ultimi quarant’anni hanno portato gravi colpi alla già povera economia delle regioni orientali del Ladakh. Dopo la insurrezione di Lhasa nel ‘59 e la completa annessione del Tibet alla Cina, la frontiera è stata chiusa e si sono interrotti quei traffici che si svolgevano lungo la carovaniera da Leh a Guge ed al Tibet centrale Fu così impedito il florido commercio indo-tibetano lungo una pista sulla quale i primi missionari buddhisti e forse lo stesso Padma Sàmbhava[9] erano giunti dallo Swat (ora in Pakistan) per predicare la nuova fede nelle regioni trans-himalayane.
Dopo la guerra del 1962, la Cina si è annessa anche la regione di Aksai-Chin (a nord del Pangong) e si sono interrotte anche le piste che conducevano dallo Spiti fino agli stati islamici di Yarkand, Kotan e Kashgar attualmente nella regione cinese del Sinkiang. Il Chang-Thang, dopo esser stato per millenni l’incrocio di numerose vie commerciali fra l’estremo oriente e l’Asia centrale, si è così ridotto ad una regione semidesertica dove pochi uomini contendono alla natura il diritto di vivere.
La camminata
I primi Italiani a raggiungere la nostra destinazione, il lago (Tso) Moriri, nella primavera del 1913, sono Giotto Dainelli[10] e Giuseppe Petigax, inviati da De Filippi, capo della grande spedizione che nel 1913-14 congiunse il sistema geodetico indiano con quello europeo e che in quell’inverno svernò a Leh. Nell’ottobre 1945, arrivarono Gualtiero Benardelli, Luciano Davanzo e G.B. Mazzolini, giunti da sud valicando la grande Himàlaya: appartenevano al gruppo di prigionieri di guerra del campo di prigionia di Yol.[11]. L’area è stata aperta al turismo nel 1994. Nel 1998 per la prima volta un bus arrivò a Karzok, l’unico villaggio sulle sue sponde, ed era stato noleggiato da chi scrive per trasportare la propria famiglia e tanti amici. Il lago è ormai inserito nei programmi di viaggio delle agenzie ed è facilmente raggiungibile con fuoristrada che meglio affrontano la pista sconnessa.
Fra lo Tso Moriri e la grande (ed unica) strada che congiunge la pianura indiana e il Ladakh,[12] vi sono aree ancora irraggiungibili da qualsiasi fuoristrada. Sono ampie valli fluvioglaciali, conche circondate da cime innevate, pascoli enormi privi di piante ed anche di arbusti. Il nostro percorso inizia al villaggio di Kartse (sulla rotabile Manali-Leh), costeggia le rive del lago Bianco (di sale), e fra dossi, mammelloni sabbiosi attraversa i valloni dove si spostano gli ultimi nomadi. In un paio di punti abbiamo incrociato la pista che unisce la Manali Leh al villaggio di Puga, con le sue sorgenti sulfuree e la scuola del Tibetan Children Village[13], ma è una strada frequentata da un paio di veicoli al giorno. In ogni caso, pista e percorso coincidono lungo le sponde del lago Bianco, ricco di fauna acquatica, ma anche di ibex (una sorta di camoscio) e di kyang (asino selvatico).
Il termine nomadi è abbastanza ampio e può includere benissimo i Chang-pa che vivono sia da questo lato del confine che nella più vasta zona dell’altopiano appartenente alla TAR (Tibet Autonomous Region, il Tibet occupato dai Cinesi negli anni 50). Nella TAR il nomadismo avviene in una continua transumanza su un areale che ha un diametro di circa 80 chilometri. Qui in Ladakh vi sono ben precise regole e statuti centenari che regolano i diritti di pascolo e lo spostamento attraverso le valli. Dopo il 1959 molti nomadi tibetani si sono rifugiati nelle zone controllate dall’India e i Chang-pa ladakhi hanno dovuto dividere i pascoli con loro. In alcune valli abbiamo trovato una piccola tenda isolata, abitata da un sorvegliante che controllava che non vi fossero abusi od “invasioni di pascolo”.
Il primo europeo ad attraversare le aree attorno allo Tso Moriri fu Trebek, compagno di Moorcroft[14]. Su questo percorso si mosse Francke nel 1909. Il 14 giugno il reverendo partì da Simla, capitale estiva dell’impero, per raggiungere il Ladakh ed arrivare a Srinagar il 16 ottobre. Egli intraprese questa parte di percorso, che ora ricalchiamo in senso inverso, il 5 agosto partendo dal monastero di Kye in Spiti e giungendo a Karzok il 10 agosto. Arrivò a Leh il 22 dopo alcune soste sul percorso[15].
Nella piana di Debring lasciamo il percorso per Manali e ci innestiamo su quello per lo Spiti. Ed ancora una volta è un diario a guidarci nel tempo e nello spazio: “Il campo successivo venne posto a Debring, sul versante meridionale del passo Thag-lang e cambiamo gli yak noleggiati a Nyoma con altri del Rupshu. Debring è un campo sosta per i nomadi con numerosi muri mani e ciorten, ma neppure una casa. Valicammo il Thag-lang il 19 di agosto e marciammo sul villaggio di Gya, il primo del Ladakh sulla strada dal Rupshu. ... Quando Moorcroft si fermò qui nel 1820, l’intera popolazione di questo piccolo villaggio, che non aveva mai visto prima un Europeo, fuggi terrorizzata, lasciando vuote le proprie case”.
Ma dove avremmo incontrato i nomadi? Nessuno sapeva dircelo di preciso. Avevo calcolato che dopo la festa al monastero di Karzok, i nomadi avrebbero ripreso i loro spostamenti e quindi il nostro percorso, in senso contrario al loro spostamento, ci avrebbe permesso sicuramente di incrociarli fra lo Tso Moriri e il lago Bianco. E così è avvenuto e l’incontro ha superato l’aspettativa.! Al quarto giorno abbiamo posto il campo in un ampio vallone lungo parecchi chilometri fra dossi di un tenero verde e cocuzzoli imbiancati. In lontananza si scorgono tende marrone e bianche che vogliamo raggiungere domani. Nell’alba dei 4500 metri, mentre una brezza gelida scende dai ghiacciai alla testata della valle ed il sole non riesce ancora a scaldare l’aria, la prima carovana si materializza nell’aere terso. Due, tre, quattro greggi, migliaia di ovini si muovono su fondovalle e pendii: una marea bianca avanza verso di noi. In lontananza, ben distinguibile nell’aria cristallina, già si muove una seconda carovana.
Al centro della valle si snoda una colonna composta da circa trenta yak. Le bestie sono cariche di sacchi, di pali, di tende arrotolate. Alcuni nomadi si muovono a piedi controllando il procedere delle greggi. Altri sono a cavallo, donne e bambini siedono sulle masserizie trasportate dagli yak. Ed un palo con una bandiera che garrisce al vento, era infisso sul carico dello yak capomandria., segnalando il progredire della carovana. È passata la prima carovana, passa la seconda. Rimaniamo senza fiato. I paesaggi fino ad ora incontrati da soli giustificano il viaggio, ma questo incontro lo completa e rende unico.
Quella sera, davanti al piccolo fuoco di bivacco, in una veglia alle stelle, parliamo del passato. Sonam, Piero ed io ci siamo conosciuti in Ladakh più di vent’anni fa. Nessun rimpianto, ma una vena di nostalgia affiora dai discorsi.
Nei giorni seguenti, passando da un attendamento ad un altro, siamo invitati nelle tende, beviamo yogurth e sgranocchiamo il formaggio secco, prodotto con il latte di drimo (‘Bri-mo, la femmina di yak; non esiste il latte di yak, sarebbe come dire latte di toro!). È un latte pesante, di difficile digeribilità per noi umani. Il latte che beviamo a colazione è prodotto dalle capre. Il formaggio viene conservato essiccandolo in mattonelle (l’ho visto fare anche dai Touareg in Niger) o piccoli cubetti che poi vengono raccolti in collane, così come noi facciamo con le castagne.
Sonam traduce, spiega, si scandalizza per il comportamento dei suoi conterranei. I nomadi allevano le capre non più per produrre solo lana come un tempo, ma anche per venderle ai macellai musulmani di Leh, con grande gioia dei turisti che in Ladakh cercano il Buddhismo, ma poi pretendono la bistecca che non esiste nella tradizione vegetariana locale. Sonam non approva questo modo di arricchirsi, violando una tradizione di rispetto per gli animali che, pur non essendo un dogma, è diffusa in Himàlaya. “Anch’io diverrei ricco se mi comportassi così…” afferma scuotendo la testa.
Le tende sono tessute con il pelo degli yak, vengono riscaldate da stufette di metallo alimentate con sterco di yak (così come nel Sahara si brucia lo sterco di cammello). Inserti in ottone e sbalzature adornano le stufe, ma presto si diffonderanno le stufe ad infrarossi alimentate con bombole a gas che permettono di scaldarsi in tenda ma anche all’aperto[16]. Molte tende sono illuminate da lampade elettriche collegate ad un accumulatore ed un pannello solare.
Il nostro trekking termina a Karzok., dopo sette giorni di sole cocente, di ghiaccio notturno, di trombe d’aria che attraversano le piane salate, di ghiacciai adamantini che scintillano sui pascoli. Nell’ultima notte di campo, la luna piena si riflette nelle acque cobalto del lago. Il monastero sovrasta il villaggio. Le finestre sono illuminate da lampade a gas. Accanto a noi si elevano tende di commercianti, di pellegrini e di turisti. Ad occhi aperti mi sposto nello spazio e nel tempo, dal Tibet agli Appennini, quando monasteri ed eremi erano luogo di fede e di scambio. Potrei essere accampato presso l’isolata Abbazia di Fonte Avellana con la sua preziosa biblioteca o essere giunto alla fiera al santuario di Macereto, romito edificio che si erge solitario fra i crinali marchigiani[17]…
È l’ultima notte di tenda dopo due mesi di vagabondaggi in Himàlaya, per Sonam è la vita di tutti i giorni, per Piero e per me è ora di tornare a casa.
[1] Sua Santità il Dalai Lama è il capo spirituale del Tibet, ma non è l’unico a ricevere il titolo di Sua Santità, che designa anche gli altri superiori delle vari ordini lamaisti del Vajrayana. In Ladakh è diffuso l’ordine Drukpa Kagyupa, il cui patriarca S.S. Djigme Padma Aungchen, 12° Gyalwang Drupa, ha visitato lo Zanskar ed ha tenuto un sermone a Sani il 1° luglio del 2002.
[2] Il lago è magnificamente ripreso nelle scene iniziali di “Samsara” girato in Ladakh nell’estate 2000.
[3] Dainelli Giotto “Il mio viaggio nel Tibet Occidentale”, 1932, pag. 374.
[4] “A Firenze viveva il professor Giotto Dainelli, geografo insigne, esploratore in lungo e largo del Kashmir, del Karakorum, del Ladakh… Insomma Clé era cresciuto con il motivo del Tibet nelle orecchie, negli occhi nel cuore.. provava una segreta voglia di gridare: ‘Anch’io, anch’io! Ci devo mettere piede anch’io’-”. Maraini Fosco, Case, amori, universi ; Mondadori 1999.
[5] La Lamdon Model High School è stata finanziate da tanti amici di AnM e da sezioni dell’Angolo dell’Avventura. Per informazioni: Aiuto allo Zanskar onlus, www.aazanskar.org.
[6] Il progetto completo del viaggio in Himàlaya si trova nel sito www.marcovasta.net/zanskar2002
[7] Theodor Monod, Il viaggiatore delle dune, Bollati Boringhieri
[8] Così l’antropologo Marco Aime “Chi viaggia vive due volte” in “Volontari per lo sviluppo”, giugno luglio 2002.
[9] Leggendario taumaturgo, forse rappresenta i vari missionari che giunsero dall’India, allora largamente buddhista, al Tibet.
[10] de Filippi Filippo, Storia della spedizione scientifica italiana nell'Himalaia Caschmiriano 1913-14, Zanichelli Fondamentale per la storia dell'esplorazione del Karakorum. A dispetto del titolo è un diario accurato di quanto compiuto nel corso di questa avventura durata due anni ed interrotta dallo scoppio delle ostilità. I capitoli più interessanti sono quelli curati da Giotto Dainelli, viaggiatore e studioso di grande capacità espressiva che ritornerà in Ladakh nel 1930.
[11] L’epopea dei POW Prisoners of War di Yöl è narrata in alcuni libri e anche dalla rivista mensile del CAI, forse sarà soggetto di un film.
[12] Marco Vasta, Sul tetto del mondo, Gente Viaggi, agosto 2000
[13] Fondatrice dei TCV è la signora Jetsun Pema che nel febbraio 2002 ha ricevuto il premio “Donna Coraggio” nel corso di una cerimonia nel Salone Vanvitelliano di Brescia
[14] Moorcroft & Trebekh, Travels, 1848, r.an. OUP Karachi 1979).
[15] A.H. Francke, Antiquites of indian Tibet, 2 vol. Calcutta 1914 (r. an. N.D. 1972).
[16] Chi fosse incuriosito da questo elettrodomestico per nomadi può consultare la pagina internet: www.shrishakti.com/alternativeenergy/heaters.html
[17] Nell’eremo camaldolese di Fonte Avellana, fondato nel 980, i monaci lavoravano in un luminoso scrittorio. Il Santuario di Macereto in Valnerina, ai piedi dei Monti Sibillini, è un’elegante costruzione di forme bramantesche; vi si teneva una fiera annuale.