Il grande mare di sabbia e un paziente non tanto inglese
di
Stefano Malatesta
Sapevo già qualcosa di Laslo
von Almásy e quello che sapevo, per averlo letto nei
libri di Théodore Monod, il grande sahariano, e in altri
e variopinti testi, era molto più interessante della
vicenda raccontata in un libro modesto e di grande
successo e in un film irritante, di enorme successo e
dallo stesso titolo: Il paziente inglese. Ma capivo
anche che se il protagonista del film, invece di essere
un seduttore eterosessuale nella Cairo degli anni
Trenta, dove tutti andavano in giro con vestiti di lino
bianco tranne i nativi, fosse stato un omosessuale che
durante la seconda guerra mondiale aveva avuto come
amante un ufficiale dell'Afrikakorps, Il paziente
inglese non avrebbe vinto otto Oscar.
Quello che mi spinse ad occuparmi di lui e a seguire le
sue tracce non furono le sue abitudini sessuali - erano
affari suoi - ma una nota a piè di pagina. «Il conte
Laslo von Almásy non morì a Roma nel 1958, come dice
Monod in Désert Libyque o a Innsbruck», c'era scritto in
un articolo biografico pescato su Internet, «ma nel 1951
a Salisburgo, di dissenteria, all'età di cinquantacinque
anni». Ora a Salisburgo si può morire di noia nei
periodi in cui non c'è il festival, ma crepare di
dissenteria senza nemmeno un antibiotico a portata di
mano, come un esploratore dell'Ottocento nella giungla
darwiniana, mi sembrò subito una storia inventata o
sbagliata.
A meno che non fosse stato avvelenato. Da poche
settimane l'avevano nominato direttore del Desert
Institute del Cairo su suggerimento dell'ambasciata
britannica e tutti sapevano che l'istituto era la
facciata che la scienza prestava volentieri a gente dei
servizi informativi. Allora Laslo, o Lazlo, o La'szló
dopo aver lavorato per Rommel dando molti fastidi agli
inglesi, essere stato arrestato dagli ungheresi a
Budapest alla fine della guerra, finito nelle galere del
Kgb sovietico, incredibilmente uscito dalle stesse dopo
solo qualche mese senza un graffio, si era forse messo
agli ordini dei suoi vecchi amici-nemici? Ma per conto
di chi? Fu così che cominciai a raccogliere tutto il
materiale possibile su Almásy e a selezionarlo per
ordine di credibilità, un metodo che incontrava ostacoli
a ogni passo. Poi, un giorno di marzo, sono partito per
l'oasi di Siwa, nel deserto occidentale egiziano,
trascinandomi dietro due valigie gonfie di libri e di
cartelle, e determinato a passare la metà del tempo
immerso nelle piscine naturali di questa oasi di
seduzione e l'altra metà a ricostruire la sua vita.
Fuori del giro turistico e una volta circondata da una
fama di irraggiungibilità, era il luogo ideale dove
lavorare su un personaggio simile prima di essere
risospinti verso l'Europa dalla stagione calda.
Sto parlando anche da un punto di vista geografico, non
solo edonistico. Perché bastava uscire dall'immenso
palmeto e ti trovavi di fronte il Grande Mare di Sabbia,
che era stato il terreno di esercitazione di Laslo
ancora prima che si lanciasse nell'avventura di Zerzura.
Ogni giorno, prima di iniziare a lavorare, facevo un
giro tra le dune più vicine ancora avvolte in una
leggera umidità e la crosta di sabbia che si era formata
mandava un curioso crepitio, destinato a scomparire
entro un'ora.
Qualche anno fa a Siwa c'era un unico albergo decente
dove scendere. Aveva un aspetto rustico e pulito, senza
pretese, ma con una sua eleganza nascosta che non mi
dispiaceva affatto, immerso in un fitto palmeto a poca
distanza dalla piazza principale, volendo chiamare così
una spianata ingombra di rifiuti e di baracche, che
confinava con gli spettrali resti di Aghurmi, la città
vecchia. Questo antico centro era stato costruito con il
karshif un fango impregnato di sale, e diventato duro
come il marmo. Ma nel 1926 piovve per trenta ore
consecutive, un fenomeno mai osservato né prima, né
dopo, il karshif ritornò al suo stato originario di
fango e Aghurmi si afflosciò su se stessa, mentre gli
abitanti terrorizzati fuggivano nell'abituale rifugio,
il deserto. Rimasero in piedi solo i resti in arenaria
del tempio di Giove Ammone, uno dei più celebri oracoli
dell'antichità, visitato nel 331 a.C. da Alessandro
figlio di Filippo, re macedone che aspirava a
conquistare il mondo. Arriano, il più attendibile e
intelligente biografo di Alessandro, ha scritto che il
re macedone nelle sue azioni era sempre spinto dal
póthos, una parola che definisce una persona trascinata
dal destino e nello stesso tempo spinta da impulsi
irrazionali e violenti. Ma in questo caso si trattava di
una mossa ragionata, perché Alessandro voleva farsi
riconoscere faraone in terra d'Egitto, base di partenza
per la conquista dell'Asia. I grandi della terra sono
autoreferenti o dialogano tra loro, e Napoleone,
commentando il viaggio a Siwa del macedone, disse che
aveva fatto benissimo. "Anch'io andrei in pellegrinaggio
alla Mecca", aggiunse, "se il viaggio servisse a mettere
in ginocchio l'Oriente".
Non dovrei lasciarmi andare alla divagazione storica o
dotta, in un racconto breve. Il fatto è che mi trascino
dietro, insieme con i libri, anche il complesso di far
vedere che mi sono preparato, quando scrivo di un
viaggio. Comunque, nel ristorante dell'albergo mangiavo
buone verdure e delicate ciambelle fritte, simili a
quelle che si vendevano una volta in tutti i porti del
Mediterraneo levantino, profumate alla cannella. E
seduto in giardino su un'elegante poltroncina, in
effetti la più seducente poltroncina da esterni che
abbia mai visto, messa insieme con legnetti di fibra di
palma e decorata con dentelli e ghirigori, inseguivo,
circondato da libri e da carte, il mitico Laslo;
diminutivo di Ladislao, nei suoi continui, irrequieti
spostamenti. Quando ero stanco di incastrare i tasselli
di un puzzle che si comportava in modo paradossale,
cambiando continuamente figura e aspetto a mano a mano
che aggiungevo nuovi pezzi, un processo inverso a quello
abituale (nel puzzle, non nella vita di una spia), me ne
andavo a passeggiare per le stradine polverose
dell'oasi, percorse da decine di carretti portati al
piccolo trotto da asinelli. Erano così silenziosi, con i
pneumatici al posto delle ruote di legno, la grande
rivoluzione del trasporto nei paesi fuori mano del Terzo
Mondo, che ti arrivavano addosso senza preavviso e i
guidatori si divertivano a scivolarti accanto, tirando
le briglie all'ultimo momento.
Fino a venti anni fa era ancora difficile raggiungere
l'oasi. Venendo dal Cairo bisognava fare un giro
larghissimo, come oggi, perché non esisteva una via
diretta se non attraverso un letale deserto, che nel 500
a.C. aveva inghiottito l'esercito di Cambise (ogni tanto
qualche babbeo o qualche truffatore dice di aver trovato
i resti della spedizione). Mentre l'itinerario delle
carovane si teneva stretto alla costa da Alessandria
fino a Marsä Matrüh, girando poi verso l'interno dopo
aver costeggiato la lugubre e caldissima depressione di
Qattara, e andando avanti per trecento torridi
chilometri. Si capiva come allora il forte isolamento
avesse mantenuto quasi intatti i costumi e le tradizioni
berbere come in nessuna altra parte dell'Egitto. Le
ragazze, molto più disinvolte di quelle delle oasi
nilotiche, portavano scialli violetti ricamati e immensi
orecchini d'argento, con catene a ciondolo che
ricadevano sulle spalle. Gli uomini, in maggioranza
poveri braccianti chiamati zagallah, dormivano nei campi
e lavoravano per i proprietari terrieri in cambio di
cibo, un turbante, una tunica di lana per l'inverno e
una camicia di cotone per le altre stagioni. Gli
zagallah faticavano, ma le loro feste erano molto
allegre ed esclusivamente omosessuali. Si cantava, si
ballava e immagino si copulasse con ardore sotto le
palme, anche senza avere la potenza sessuale dei
sudanesi che avevano infiammato la fantasia di Lawrence
Durrell nel primo libro del Quartetto di Alessandria («I
coiti dei sudanesi facevano tremare il tetto delle
case»).
Alle feste partecipavano anche i figli dei proprietari
terrieri, dimostrandosi democratici negli affari del
sesso. Fino al 1928 erano abbastanza comuni i contratti
di matrimonio o gli impegni per rapporti more uxorio tra
questi contadini e non si capisce le donne che fine
avessero fatto: tutte negli harem dei ricconi? Quando
uscirono degli articoli scandalizzati sulla stampa
occidentale, il padre di Faruq, re Fuad, dovette
fingersi indignato e proibire un'usanza che andava
avanti da secoli e che continuò fino alla seconda guerra
mondiale. Ahmed Fahkry, l'autore di un documentatissimo
saggio sull'oasi, dal quale ho "tratto" queste note,
come si dice eufemisticamente invece di "copiato",
assicura che oggi tutto è regolare, nel senso che uno fa
quello che gli pare. Ma la fama di Siwa, l'oasi che ha
anticipato di secoli il permissivismo dell'Olanda con i
matrimoni tra maschi, continua a esercitare ancora un
forte potere di richiamo e se al tramonto vedete delle
coppie che passeggiano avvinghiate o mano nella mano,
potete essere sicuri che sono coppie dello stesso sesso.
Quelle etero si comportano in maniera molto più
disincantata.
Torniamo alle carte di Almásy, tra le quali trovai
subito una curiosità: la storia del fratello sconosciuto
o conosciuto da pochi e poi scomparso dalle cronache. Un
vecchio ex gaudente egiziano e campione di polo, che
doveva essere stato molto amato dalle donne (qualcuno un
giorno mi dovrà spiegare cosa avevano i campioni di
polo, che attirava le signorine in maniera indecente,
almeno nei decenni prima e dopo la seconda guerra
mondiale - adesso mi sembrano in ribasso), raccontava a
un giornalista di avere presentato Laslo al principe
Hussein Kamal el-Din, figlio dell'ultimo sultano
d'Egitto, che nel 1917 aveva rinunciato al trono
preferendo le partite di caccia grossa e i viaggi e che
avrà una parte importante nelle esplorazioni del Deserto
Libico. Si capiva però che l'ex gaudente, che aveva
superato i novant'anni, gli preferiva il fratello János,
estroverso e anche lui circondato da belle donne, capace
di organizzare in pochissimo tempo magnifiche cacce nei
boschi dell'Ungheria, a pagamento s'intende, per i
membri della corte egiziana. Mentre Laslo era
introverso, non si vedeva mai con una donna, e diventava
languido solo quando parlava del deserto. Come il
fratello, organizzava cacce, questa volta in Egitto per
i magnati ungheresi, guadagnandoci sopra. I due Almásy
si erano divisi il mercato.
D'origine ungherese,
erano nati non in Ungheria, ma in Austria, nel castello
Bernstein - stesso nome del direttore d'orchestra e
autore di West Side Story -, e non erano nobili. Il
padre, György, aveva viaggiato molto anche lui nell'Asia
centrale, una sorta di Przvheval'skij minore,
raccogliendo per i musei esemplari di fauna locale e
mandando i figli a studiare in Inghilterra: Laslo
parlava indifferentemente inglese, tedesco, magiaro e
francese (i suoi libri sono scritti in tedesco), guidava
le automobili come un pazzo ed era ancora più temerario
in aereo. Durante la prima guerra mondiale aveva
compiuto miracoli con un biplano dalle ali ricoperte di
tela, lo chiamavano il barone rosso ungherese e quando
gli Asburgo abdicarono, venne assoldato come autista di
rango nella velleitaria spedizione a Budapest di Carlo
IV, l'ultimo della più antica casa regnante d'Europa,
che voleva riconquistare almeno il trono dell'Ungheria.
La storia volle altrimenti, come diceva il mio
professore al liceo, e Carlo IV s'incamminò per la via
dell'esilio, dopo aver innalzato Laslo al rango di
conte, l'ultimo conte del regno ungarico. Così almeno
Almásy stesso raccontava agli amici quando già viveva al
Cairo.
Proseguo con la biografia, che in questo tratto della
sua vita scorre senza troppi buchi neri. I due fratelli
dovevano aver preso la rappresentanza di una fabbrica
austriaca di automobili, la Steyr Automobilwerke, perché
nel 1926 vediamo riapparire Laslo in Africa, impegnato
con il principe Ferdinando di Liechtenstein in rally dal
Sudan al Cairo e viceversa. Allora non esisteva nemmeno
l'idea dell'automobile fuoristrada, indispensabile era
lo stile, disinvolto, elegante, avventuroso, con cui si
affrontavano queste imprese e i piloti con il casco di
pelle e la sciarpa svolazzante diventavano degli eroi.
Sembra che l'ungherese durante uno di questi rally abbia
riscoperto l'antica pista carovaniera, in arabo Darb al
Arbain o pista dei Quaranta, dove passavano le carovane
di schiavi che dal Sudan in quaranta giorni arrivavano
nella Nubia egiziana.
L'impresa, riportata dai giornali, gli aveva dato una
certa notorietà, facendolo diventare un personaggio
ricercato nella Cairo dello Shepheard's Hotel, il luogo
più famoso della città dopo le piramidi. L'albergo,
costruito secondo uno stile definito "edoardiano della
diciottesima dinastia", aveva una sala da ballo sorretta
da pilastri a forma di loto copiati dalle colonne di
Karnak e una immensa scala che dall'ingresso portava ai
piani superiori, fiancheggiata da due cariatidi di ebano
dotate delle più belle tette di tutta l'Africa
settentrionale. Chi entrava cercando un amico, dopo aver
girato inutilmente le sale della reception finiva
risucchiato dalla terrazza che si affacciava su Ibrahim
Pasha Street, guardata con ragione dai nazionalisti
egiziani come il simbolo della colonizzazione inglese, e
incendiata nel 1952 insieme con tutto l'albergo. Intorno
ai tavolini ottagonali della sala da tè, riuniti in
piccoli gruppi, i turisti di rango si mescolavano con
gli ufficiali in cachi specialisti nel classismo
coloniale, molto più discriminatorio di quello già
cospicuo praticato nella vecchia Inghilterra. E le
novità da Londra venivano ricambiate con i pettegolezzi
locali e con informazioni più sostanziose sul va e vieni
a corte dei pascià. Durante la guerra, per chi era
interessato all'ordine di battaglia della prossima
offensiva, bastava sedersi al bar con le orecchie
dritte, fingendo di aspettare che la polvere del caffè
alla turca si depositasse nel fondo della tazzina, per
sapere quello che voleva. Ancora più utile era la
frequentazione della terrazza, servita da camerieri
egiziani più snob dei loro clienti, sempre affollata di
altezzosi generali che spiegavano come avrebbero battuto
Rommel. (I loro sottoposti dicevano che i comandanti
inglesi erano troppo gentiluomini per sconfiggere quella
"merda" del feldmaresciallo tedesco: ci voleva uno come
lui. Poi nominarono capo delle forze armate il generale
Montgomery e nessuno ebbe più dubbi che ce l'avrebbero
fatta, perché l'appellativo dato a Rommel era
applicabile anche a lui.)
Ricordate in Lawrence d'Arabia, il film di David Lean,
la scena in cui Lawrence arriva al Cairo dopo aver
conquistato Aqaba alla testa dei bedu di bin Auda, e
stralunato, e ancora vestito da nomade del deserto,
tenta di entrare in un edificio chiaramente riservato
agli inglesi in compagnia di un altro malandato
scorridore? E quando chiede da bere, il barman
orripilato che non l'ha riconosciuto fa: "No, no, andate
via", e impomatati ufficialetti abbandonano la partita
di whist e lo guardano con disgusto, perché lo hanno
preso per un nativo? Beh, quello era qualcosa tra il
comando inglese e lo Shepheard's.
Fu in questo periodo che Laslo decise di dedicarsi alla
ricerca di Zerzura, un'oasi che nascondeva una città
bianca come una colomba, che a sua volta nascondeva
forzieri ricolmi di sfavillanti pietre preziose e di
perle di incommensurabile valore e di altri oggetti
qualificati con gli aggettivi in uso nella favolistica
medio orientale. Prima che arrivasse l'indignato Edward
Said a dirci che tutto questo era robaccia esotica
inventata dall'imperialismo europeo. Molti secoli fa -
sia concesso anche a me di adoperare il linguaggio di
Shahrazad - in un tempo in cui il deserto non era
deserto, e al posto della sabbia si estendeva la savana
e uomini dai corpi snelli e dalla capigliatura
rovesciata dalla nuca verso la fronte dipingevano sulle
rocce rosse figure di animali con una maestria e un
senso del movimento ineguagliati, forse ci dovevano
essere luoghi più magici di altri. Visitati da
ardimentosi viaggiatori, erano poi scomparsi come
miraggi, lasciando dietro di loro una scia di allettanti
descrizioni ispirate al meraviglioso. Una di queste
descrizioni diceva: «Sopra la porta c'è un uccello di
pietra bianca. Guarda dentro il becco e, dopo che avrai
trovato la chiave, apri la porta ed entra dentro la
città. Troverai tesori immensi e il re e la regina che
dormono dentro il castello. Non ti avvicinare a loro, ma
prendi i tesori e vattene. La pace sia con te».
Oggi sappiamo che i miti e le favole riflettono in parte
accadimenti reali, trasformati e rielaborati secondo le
necessità del momento. Durante il medio evo, i
conquistatori arabi dell'Egitto avevano cominciato a
scavare qua e là lungo il Nilo, dove i resti che
affioravano dalla sabbia facevano intuire che la cultura
che li aveva preceduti aveva prodotto opere
infinitamente più imponenti e straordinariamente più
avanzate di quanto si potesse immaginare. Le
sopravvivenze di un mondo misterioso andarono ad
alimentare storie di tesori arrivate quasi intatte fino
all'Ottocento, il secolo della scienza, delle
esplorazioni africane e dell'egittologia. Il primo
europeo a parlare di Zerzura con qualche fondamento
geografico, ma in maniera indiretta, sembra essere stato
un certo I.G. Wilkinson: un beduino gli avrebbe riferito
di una vallata con palme da datteri, acacie e sorgenti
d'acqua, sconosciuta a tutti, da lui scoperta lungo la
direttrice Farafra-Bahariyya. Secondo un altro beduino,
non i più affidabili tra gli esseri umani, Zerzura stava
da tutt'altra parte: a due, tre giornate di cammino da
Dakhla in direzione ovest, nel Deserto Libico.
L'area definita Deserto Libico - dove "libico" va inteso
nel senso antico, romano del termine, quando la "Libia"
era quasi tutta l'Africa settentrionale - e oggi divisa
politicamente tra l'Egitto, la Libia, il Sudan e il
Ciad, rappresentava un paradosso. Si trovava solo a
qualche centinaio di chilometri ad ovest della più
antica e più spettacolare civiltà umana, quella dei
faraoni, ma era rimasta l'ultimo spazio africano ad
essere attraversato e studiato. Cominciò nella seconda
metà dell'Ottocento Gerhard Rohlfs, un tedesco dalla
tempra eccezionale, che amava l'avventura in modo
passionale, gettandosi in un impresa disperata:
raggiungere l'oasi di Cufra, perduta nell'angolo
sudorientale dell'attuale Libia dove nessun europeo era
mai stato. Durante un primo viaggio Rohlfs, finanziato
da Ismail pascià, il kedivè d'Egitto, era partito da
Dakhla e aveva attraversato uno spaventoso deserto in
trentasei giorni con scorte d'acqua solo per sedici,
superando creste di dune alte fino a centocinquanta
metri senza mai incontrare un pozzo e senza mai vedere
un cespuglio, come scrisse nel suo diario. Era il primo
riferimento a quello che verrà poi chiamato il Grande
Mare di Sabbia, seicento chilometri di dune disposte
caoticamente nella parte settentrionale, "a dorso di
balena" è la definizione tecnica, e perfettamente
allineate nella zona meridionale. Arrivata a Siwa in
condizioni pietose, la spedizione era stata costretta a
tornare indietro e a rinunciare alla misteriosa Cufra,
che all'epoca aveva preso il posto di Timbuctù nel mito
dell'irraggiungibilità. Solo cinque anni più tardi, nel
1879, l'esploratore tedesco riuscì ad arrivare all'oasi
seguendo un itinerario completamente diverso e chiudendo
così con quel viaggio l'era eroica della storia
dell'esplorazione del Sahara. Dopo di lui, il primo
europeo che metterà piede a Cufra, roccaforte dei
senussi, sarà un soldato italiano, un certo Stefano
Mascio, fatto prigioniero durante la rivolta araba in
Libia contro l'occupazione italiana.
Un'altra spedizione celebre nel Deserto Libico è stata
quella di Rosita Forbes, un'inglese intraprendente che
si accompagnava con il più audace e affascinante degli
esploratori di quel periodo, Ahmed Hassanein, fino a
pochi mesi prima solo un bel tipo di egiziano dei ceti
più ricchi, che aveva studiato a Oxford. Date
un'occhiata, se vi capita, alla fotografia di Ahmed in
full dress desertico riportata da tutte le guide e
capirete perché la signorina Forbes voleva andare con
lui non importa dove. Farsi riprendere nei panni del
Figlio dello Sceicco era diventata un'abitudine di
pessimo gusto degli europei in Medio Oriente. Molti non
resistevano all'idea di avvolgersi in garze svolazzanti
e di infilare nella cintura un pugnale ricurvo dalla
lama damaschinata e dal manico lavorato in argento, e
c'era caduto persino Lawrence. Agli arabi dovevano
sembrare delle puttane. Mentre l'abbigliamento
dell'egiziano, pur essendo elegantissimo, è sobrio,
adatto alla bisogna, da esploratore autentico.
Indossando questo o con un altro simile, Hassanein bey,
più tardi Sir Ahmed, nel novembre del 1920 partì da
Bengasi con la Forbes, che aveva ottenuto un permesso
dal governatore italiano, scese fino a Cufra seguendo in
parte l'itinerario di Rohlfs, e ritornò in Egitto
passando per Siwa. L'impresa aveva rischiato di finire
prima della partenza, perché qualche ottuso funzionario
stava per inguaiare il bel Ahmed, sotto l'accusa di
tramare con i senussiti, per quali fini non è dato di
sapere. Ma la svelta ragazza inglese, fiutando il
pericolo, aveva dato ordine alla carovana di muoversi in
segreto, prima che il permesso le venisse ritirato.
Tre anni più tardi Ahmed, diventato consigliere
d'ambasciata a Washington, venne richiamato in patria da
re Fuad per un altro viaggio che oggi viene considerato
strabiliante: la traversata a dorso di dromedario di
tutto il Deserto Libico nella sua lunghezza, da nord a
sud, per esplorare territori che non erano nemmeno
riportati sulle mappe. «E una mattina», scrisse in The
Lost Oases, uscito in Inghilterra nel 1925, «dopo aver
attraversato una serie di ripide dune, scorgemmo
improvvisamente un lontano massiccio montuoso,
seminascosto dalla nebbia, che aveva il profilo di un
vecchio castello feudale. Qualche momento più tardi il
sole apparve all'orizzonte, inondando di una luce rosa
quelle lontane montagne grigie che fino ad allora avevo
credute leggendarie e dunque inesistenti e che
nascondevano le oasi perdute». La scoperta di Ahmed
modificava l'idea che si aveva sulla struttura del
Deserto Libico simile a un immenso tavolato: alcune cime
del massiccio, poi chiamato gebel Auenat, erano alte
quasi duemila metri e nei valloni si trovavano depositi
di acqua piovana e anche alcune sorgenti (auenat
significa in arabo "piccola sorgente"). Ma tra le oasi
perdute e poi ritrovate non c'era Zerzura.(Un uomo dal
fascino e dalle capacità di Hassanein doveva andare
lontano e non fermarsi alle esplorazioni. In un libro
dal titolo Cairo in the War l'ho ritrovato nel ruolo
strategico di tutore dell'erede al trono, il futuro re
Faruq. E quando morì Fuad, fu chiaro a tutti che
l'amante di Nazli, la regina madre, era lui, il sempre
aitante Hassanein pascià. All'epoca Faruq aveva meno di
venti anni ed era troppo giovane e ancora con poca
esperienza per disfarsi dell'ingombrante tutore. Ma una
volta, impugnando una pistola, capitanò un'irruzione
nell'haramlek della madre, il quartiere di corte
riservato alle donne, solo per trovare Hassanein in
correttissimo atteggiamento, mentre stava leggendo il
Corano a Nazli. Quando l'esploratore morì in un
incidente d'auto, subito dopo la guerra, Faruq ordinò
che il matrimonio segretamente contratto dai due amanti
venisse annullato.)
Il clima primaverile di Siwa era così asciutto e
perfetto, che mi sentivo rinvigorito a dispetto di
alcuni malanni e come ho detto, ogni tanto mi facevo
portare fino sulle dune, rientrando al tramonto in
albergo, dove mi aspettavano le carte. Ero riuscito a
trovare due avvincenti memorie del Cairo del periodo
d'oro che facevano al caso mio: la prima l'aveva scritta
Sir Thomas Russell pascià, per una ventina d'anni capo
della polizia egiziana, urbano ed elegante, mano di
ferro in guanto di doppio velluto, amabile
intrattenitore e grande cacciatore di gazzelle nel
deserto; la seconda era di Sir Robert Greg, alto
funzionario tra la finanza e la politica estera, detto
"pompy" per i suoi modi pomposi e non per altro, famoso
per essere riuscito a persuadere gli eredi di Howard
Carter, lo scopritore della tomba di Tutankhamon, a
restituire tutti i reperti portati via illegalmente dal
buon Howard. Ma erano le fotografie, al solito, più di
qualsiasi lettura, che riuscivano a ricreare l'atmosfera
dell'epoca, con i visi abbronzati sotto i lini bianchi,
i caschi di sughero e gli uomini in quei ridicoli
calzoncini, i più lunghi possibile tra quelli corti,
accompagnati per fortuna da calzettoni fino al
ginocchio. E le signore sempre con il parasole, almeno
fino al momento in cui si tagliarono i capelli,
ordinarono al sarto i jodhpours, i calzoni d'origine
mogol usati in India per andare a cavallo, e
cominciarono a farsi riprendere in pose più sportive.
Non vorrei aver dato l'impressione di una società
cairota esclusivamente d'impronta inglese. Nelle scuole,
nell'educazione privata, nei giornali, si parlava
francese, che era anche la lingua dei caffè come i due
Groppi, oggi completamente decaduti, dei negozi
eleganti, delle classi colte e degli egittologi. Si
diceva "Luxòr" e non "Laxor", come barbaramente
pronunciano gli americani. E le case erano arredate
purtroppo "alla francese" come lo intendono gli egiziani
e i levantini, che avevano appesantito uno stile già di
per sé pretenzioso e ingombro di passamanerie, così come
la cucina francese è ingombra di salse, però di grande
effetto se usato nei palazzi e non nel tricamere, in un
trionfo di oggettistica e di ninnoli, di lampadari di
vetro e di specchi, di dorature e di argenterie.
L'impressione che uno provava entrando in una di queste
case si potrebbe riassumere nel solito aggettivo:
soffocante.
Gli inglesi e i francesi costituivano la parte europea
di una città cosmopolita ai livelli più alti e musulmana
ai livelli più bassi. Componenti insostituibili della
mondanità e degli affari erano la haute juiverie, con le
famiglie Cattaui, Rolo, Harari, Menasce, la haute
copterie, con i Wissa, i Wahba, i Ghali, i Khayyatt, e
naturalmente la haute musulmanerie, con la famiglia
reale e dintorni. A questi gruppi si potrebbero
aggiungere la haute grecquerie, i Salvago, i Rodocanachi
e i siro-libanesi cristiani. Tutte élites consapevoli di
esserlo, anche in modo arrogante, i cui contatti con il
popolo egiziano si limitavano agli affari o a poche
frasi scambiate con i servitori locali. Le vergognose
capitolazioni, che attribuivano a qualsiasi straniero in
terra d'Egitto lo status diplomatico e altri privilegi,
erano state abolite da tempo. Ma in un clima di acceso
nazionalismo, si facevano sempre più numerosi gli
egiziani che vedevano la presenza degli europei nel loro
paese come un'occupazione e che volevano uscire dalla
condizione minorile della sovranità limitata. Di fatto
la politica in Egitto era nelle mani dei proconsoli del
Regno Unito, l'unica nazione ad avere un'ambasciata nel
paese, mentre tutte le altre potevano mantenere solo una
legazione o un consolato.
Il fascino della società cairota stava nell'estrema
varietà degli ambienti, i cui frequentatori
s'incrociavano, parlando quattro o cinque lingue, senza
mai fondersi, e mantenendo così peculiari
caratteristiche, che non necessariamente erano quelle
della nazionalità o del credo. Il più internazionale, il
più eccentrico di questi ambienti era quello venutosi a
formare intorno a un sogno: trovare Zerzura. Ritornando
indietro in quegli anni felici e studiando la vita di
chi partecipò alle spedizioni, mi ero reso conto che
tutta la vicenda presentava una serie di mascheramenti
o, se volete, una esposizione di scopi che coprivano
altri scopi. Due o tre di loro dicevano di andare nel
deserto per fare rilievi geografici e invece erano
attratti infantilmente dal tesoro nascosto o dalla fama
che avrebbero acquistato scoprendolo. I più riservati
aveva trovato in Zerzura il pretesto per ricognizioni
che sarebbero state utilissime ai servizi informativi.
Altri si sentivano realizzati (come si dice adesso, ma
non allora) solo quando rischiavano la pelle in qualche
avventura e l'Africa settentrionale valeva quanto
l'Amazzonia.
Il caso di Laslo si presentava più complicato. Anche lui
partito sotto le vesti dell'avventuriero-gentiluomo, si
era ritrovato perdutamente innamorato del deserto. Non
delle ricchezze che celava, ma di tutti quei momenti in
cui sentiva che non c'era altro luogo al mondo che
potesse dargli emozioni simili - le colazioni all'alba
intorno al fuoco mentre il violetto delle cime delle
montagne si schiariva in un colore che cambiava
continuamente; le orme lasciate sulla sabbia trenta o
quarant'anni prima e rimaste come solidificate, la gioia
nel ritrovare un pozzo che uno immaginava perduto, e la
sera, le ombre che si allungavano sulle creste dorate
delle dune, fino a quando si fermava l'auto in modo che
il giorno dopo non fosse difficile ripartire e i bagagli
erano sciolti dai legacci e posati sulla sabbia e un
tavolino veniva subito montato davanti a una tenda e un
bicchiere riempito con un liquido meritevole. Allora
l'irrequietezza di Laslo si adagiava in una stanchezza
benefica e in qualcosa di molto simile alla felicità.
Questo era per lui la ricerca di Zerzura.
Vorrei indicare qualcuno tra i protagonisti, oltre
Almásy. Ralph Alger Bagnold, una rara combinazione di
studioso del deserto e delle dune, tecnico
automobilistico e leader di commandos, era l'unico che
potesse rivaleggiare con Laslo nella conoscenza del
Deserto Libico. Nel 1932 fece un viaggio durato
sessantatré giorni, percorrendo novemila chilometri in
un'auto da lui stesso preparata: un girovagare senza
fine che risultò di grande utilità ai militari inglesi
per la gran massa d'informazioni raccolte e nello stesso
tempo confermò che con un'auto alleggerita del superfluo
e in parte anche del necessario, con pneumatici speciali
e dopo avere sistemato lungo il percorso depositi di
acqua e carburante, si potesse arrivare ovunque, anche
in quei posti dove con i dromedari non era possibile
andare. Molto diverso da Bagnold, che si potrebbe
definire un professionista, era Sir Robert, ossia Sir
Robert Clayton East-Clayton, figura classica già in via
di sparizione dell'aristocratico inglese gran
dilettante, che aveva portato in Egitto il suo biplano
Moth e che viaggiava accompagnato dalla moglie, Lady
Dorothy (sarebbe lei l'amante di Almásy, nel Paziente
inglese). Esisteva poi un altro Clayton, Patrick,
topografo dell'esercito britannico, e ci si riferiva a
lui aggiungendo: «da non confondere con Sir Robert».
Il più titolato tra questi esploratori, il più ricco e
quello che aveva i mezzi per trasformare le spedizioni
in un trionfo, era l'ex erede al trono Kemal al Din
Hussein, un ancora giovane signore con i baffi a
manubrio, entrato nella gara con tre obiettivi: Zerzura,
naturalmente; recuperare una bottiglia con messaggio
lasciata nel deserto da Rohlfs quasi cinquant'anni
prima; trovare una pista praticabile per Cufra. Su sua
richiesta, la Citroën gli aveva preparato tre auto, un
ibrido tra il cingolato e un trattore, e con questi
pesanti mezzi anche lui esplorò il Deserto Libico
durante gli anni Venti. È stato il principe Kemal a
scoprire che a nord delle montagne di Auenat si
estendeva un altopiano lungo duecento chilometri, di cui
nessuno aveva sentito parlare, chiamato poi Gilf Kebir,
ai confini con la Libia. Sessanta anni più tardi gli
specialisti della Nasa, confrontando le fotografie prese
dal satellite del Gilf Kebir con quelle di Marte,
diranno che nella terra non esiste nessun altro luogo
come queste alture battute dal vento, ricoperte di
sabbia rossa e scavate dai canyon, che rassomigli di più
all'orrida superficie del pianeta. E quando Kemal non
viaggiava per il deserto, finanziava le spedizioni di
qualcun altro: Almásy, ad esempio, considerato il
migliore.
Improvvisamente, nell'estate del 1932 il principe morì
di una di quelle fini repentine che lasciano dei dubbi:
«avvelenamento del sangue» diceva il referto medico e lì
finivano le indagini. Ma quando anche Sir Robert era
morto di colpo, e anche lui per avvelenamento del sangue
causato dalla puntura di una mosca, avvenuta durante un
viaggio di ritorno dal Gilf Kebir, e poi era toccato a
Lady Dorothy e a un altro membro del Club Zerzura,
allora si era cominciato a toccare ferro e a parlare
della "maledizione", nello stesso modo in cui dieci anni
prima si era parlato della maledizione dei faraoni
piombata su chi aveva osato aprire la celebre stanza del
sepolcro di Tutankhamon. Confesso che il filone faraoni
& misteri, con le mummie assassine e le nefertari
resuscitate e i sacerdoti con la testa rasata e gli
occhi roteanti che alzano le braccia invocando gli dèi
degli inferi, mi è sempre sembrata una letteratura da
magliari. Certo, qui le coincidenze erano numerose: Lord
Carnarvon dopo avere finanziato gli scavi a Tebe era
defunto come Clayton, il mecenate delle spedizioni nel
Deserto Libico. E anche Lady Carnarvon era trapassata
non molto tempo dopo il marito, più o meno come Lady
Dorothy, uccisa da una puntura di una mosca. Insetti che
in Egitto sembravano più letali dei coccodrilli. In quel
viaggio al Gilf Kebir, fatale per diverse ragioni, Lord
Clayton aveva viaggiato in compagnia di una magnifica
squadra composta dall'omonimo Clayton del Desert Survey,
dal pilota di aerei e ufficiale della Raf H.G.
Penderell, e dall'organizzatore della spedizione e anima
del gruppo, Laslo von Almásy. Dopo il viaggio del
principe Kemal l'ungherese si era convinto, seguendo i
racconti dei cercatori di piste, che l'oasi perduta si
trovava all'interno dell'altopiano, in uno dei tanti
valloni che lo attraversavano. Ma era un'area immensa e
non praticabile dalle automobili, con l'eccezione di
alcuni passaggi e dunque l'unica possibilità di
rintracciare l'oasi in tempi ragionevoli stava nel
sorvolare l'area con un aeroplano. L'arrivo in Egitto
del giovane Sir Robert, felice proprietario di un
Havilland Gipsy Moth 1 chiamato Rupert, venne accolto
con entusiasmo da Almásy, che aveva distrutto il suo
piccolo aereo da ricognizione durante un viaggio in
Turchia.
Arrivati nella parte più a ovest del Gilf Kebir, i tre
inglesi e l'ungherese sistemarono un campo base sotto le
falaises e cominciarono a esplorare tutta la zona
seguendo l'efficace metodo di mandare in avanscoperta
l'aereo con Robert Clayton e Penderell, e di muoversi
poi di conseguenza. Al primo giro di ricognizione si
resero conto che l'area non presentava nulla che potesse
interessare, con l'eccezione di una vallata a una
sessantina di chilometri dall'accampamento e quindi si
spostarono in quella direzione rischiando di mandare in
pezzi le auto a ogni passo perché la strada era
infernale. Ed ecco che, mentre si stavano riposando
dalle fatiche e dal caldo, nel campo visivo dei loro
occhi annebbiati comparvero due rondini decise a non
farsi spaventare, che si erano messe a bere nel
bicchiere colmo d'acqua di Almásy. La presenza di
rondini in un posto come quello significava che non
tutta l'area era simile a un posto come quello e se i
quattro amici non avevano fatto in tempo a vedere da
dove erano giunte, non si sarebbero persi il loro
successivo piano di volo. L'attesa durò oltre un'ora,
poi finalmente gli uccelli si alzarono in direzione
nord-nordest.
Il giorno dopo, all'alba, Almásy saltava sull'aereo con
Sir Robert, seguendo la direzione indicata e dopo pochi
minuti scorgeva due valli punteggiate da un certo numero
di acacie spinose. Quale delle due era Zerzura?
A quel punto bisognava solo riprendere la marcia e
raggiungerle a piedi. Ma durante la ricognizione non era
stato possibile individuare il passo che portava alle
valli. Le riserve d acqua cominciavano a scarseggiare e
il gruppo fu così costretto ad abbandonare le ricerche,
spostandosi ancora più ad ovest, verso Cufra che era
stata occupata dagli italiani solo un anno prima. Qui si
fermarono il tempo per rifornirsi d'acqua e poi, a corto
di carburante, Laslo e gli altri presero la strada del
ritorno verso nordest. Ho cercato a lungo in molti libri
di ricordi e testimonianze della Libia coloniale un
riferimento qualsiasi sull'incontro nel deserto tra i
militari italiani, descritti da Almásy come estremamente
sospettosi, e l'elegante e avventuroso "party" di
viaggiatori, ma non ho trovato la minima traccia. Sono
convinto, comunque, che la sciocca decisione dei nostri
comandi militari in Libia durante la seconda guerra
mondiale di non accettare i servizi di Almásy, che si
era offerto di collaborare come esperto del Deserto
Libico, fu causata dall'episodio di Cufra. Quello che
sembrava un dandy ungherese, che viaggiava in compagnia
di soli inglesi e che parlava con l'accento delle public
schools, non poteva che essere una spia di Churchill. E
così gli italiani si privarono dell'aiuto prezioso di
una persona che conosceva la Libia sudorientale molto
meglio di loro.
Ora che aveva individuato dall'alto le vallate di
Zerzura, Almásy fremeva di ritornare al Gilf Kebir per
cercare un passaggio, in modo da poterle raggiungere a
piedi. Il fatto che questo luogo così sospirato e
decantato non corrispondesse affatto alle descrizioni
dei viaggiatori medievali non aveva raffreddato i suoi
entusiasmi. Ci potevano essere spiegazioni ragionevoli
per un simile cambiamento e l'Africa è stato il
continente in cui sono avvenute negli ultimi ventimila
anni la variazioni climatiche più vistose. L'ungherese
doveva vedere quelle aspre vallate sotto la particolare
luce di un amore impossibile o di un paradiso perduto,
nello stesso modo con cui gli archeologi fantasticano di
favolose città davanti alle modeste pietre che hanno
portato alla luce. Ma i suoi due finanziatori per
l'impresa, il principe Kemal e Sir Robert, non avevano
più alcuna possibilità di aiutarlo nelle cose terrene e
Laslo fu costretto ad aspettare fino all'inizio del 1933
prima di ripartire per il Deserto Libico. Nel frattempo
il suo amico Patrick Clayton gli aveva giocato uno
scherzo poco simpatico, perché si era già avviato da
solo verso il Deserto Libico e l'oasi di Cufra, dopo
aver convinto il Desert Survey non dell'importanza di
Zerzura, ma della necessità di disegnare mappe nella
zona.
La spedizione del 1933, messa in piedi con molta fatica
da Laslo, è stata anche la più importante di tutta la
sua onorata carriera di descubridor. Questa volta c'era
solo un inglese nel gruppo il pilota della Raf
Penderell, mentre gli altri componenti erano due
ungheresi, un tedesco e un austriaco. Almásy, che oramai
i nomadi del deserto chiamavano Abu Ramla il "padre
delle sabbie", arrivò nel Gilf Kebir, facendolo
sorvolare in aereo da Penderell. Poi scese più a sud
verso il gebel Auenat, dove incontrò una di quelle guide
con le quali è sempre riuscito a entrare favorevolmente
in contatto. La guida si chiamava Ibrahim, era di stirpe
Tebu, veniva da Cufra e rivelò a Laslo che accanto alle
due oasi da lui avvistate nel Gilf Kebir, ne esisteva
una terza. Le oasi o vallate o uadi avevano anche un
nome: lo uadi Hamra, la vallata rossa ad est, lo uadi
Abd el Malik al centro e lo uadi Talh ad ovest. Prima di
ritornare al Gilf Kebir e di cercare la terza oasi, la
spedizione si spinse di nuovo fino a Cufra scoprendo un
passaggio tra il confine libico e quello egiziano
sconosciuto fino ad allora, chiamato l'Aqaba Pass in
onore di T.E. Lawrence, e di cui si servirà l'ungherese
in una situazione straordinaria durante la seconda
guerra mondiale.
Tutti questi particolari che fanno da contorno alla vera
storia d'amore di Almásy, che non è veramente quella per
l'ufficiale tedesco ma per il deserto, sono stati
raccontati da Laslo in un libro uscito in Germania alla
vigilia della seconda guerra mondiale, intitolato
Unbekannte Sahara e famoso tra i sahariani, anche se non
è stato mai tradotto.
Non conoscendo il tedesco, un paio di mesi prima di
partire per Siwa ero andato allo studio di Dieter Kobe,
un bravissimo pittore che vive a Roma da trent'anni, e
l'avevo costretto a leggere e a tradurre ad alta voce il
passo in cui Laslo, dopo aver marciato per una ventina
di chilometri tra le rocce, finalmente arriva ad una
cima da dove si può vedere una vasta depressione, lo
uadi Talh. Esattamente in quel momento qualcosa gli
svolazza intorno, lui spara a un piccolo uccello bianco
e nero, se lo mette in tasca e poi torna nel luogo dove
ha lasciato l'auto con l'autista arabo. Quando l'autista
vede l'uccello, un culbianco o anche passero del Sahara,
lo chiama con il nome in arabo: zerzur. Il commento del
mio amico Dieter, dopo avere letto quelle poche righe,
era stato scettico: «Tutto molto suggestivo, a parte
l'uccisione di quel povero passerotto. Ma questo non è
sufficiente a provare che in quella zona si trovasse
Zerzura, se mai è esistita».
Durante gli anni seguenti l'instancabile Laslo organizzò
altre spedizioni, per studiare le pitture rupestri che
aveva scoperto in una caverna vicino alla sorgente di
una località chiamata Ain Dua e per setacciare lo uadi
Abd el Malik, lungo più di ottanta chilometri. Questi
viaggi, sempre molto avventurosi, erano stati utili, ma
non avevano risolto il mistero di Zerzura, o il falso
mistero, perché se è certo che queste vallate una volta
furono abitate, come provano le pitture rupestri, quando
il clima era differente e la savana sostituiva il
deserto, sembra altrettanto certo che vennero poi
abbandonate, già in tempi storici, alla sabbia e ai
venti. Eppure due anni più tardi Laslo conobbe un
piccolo trionfo, incontrando l'uomo che aveva dato il
nome a una delle tre vallate, Abd el Malik. Apparteneva a
una tribù originaria di Cufra, aveva settantacinque
anni, era ancora robusto e lucido e narrava una storia
complicata di rivalità tribali, di lotte per l'acqua e
le pasture, di Tebu che conoscevano uno uadi quasi
inaccessibile a quattro giornate di marcia da Cufra. Lui
stesso, una volta, era riuscito a raggiungere questa
valle del Gilf Kebir, spingendosi molto all'interno del
ramo più meridionale per razziare i cammelli ai Tebu e
aveva visto palme e acacie, praterie dove gli animali
andavano a brucare e abbondanza d'acqua. E al ritorno
dall'incursione, era stato ricompensato dal capo tribù e
lo uadi aveva preso il suo nome, Abd el Malik, appunto.
«In questa vallata», aggiunse, «vivono piccole volpi, i
fennec, mufloni e una quantità incredibile di uccelli
bianchi e neri. Sono gli uccelli che hanno dato il
vecchio nome alla vallata». «E qual era questo nome?»
chiese Laslo. «Zerzura».
Qui finiva questa interminabile, affascinante ricerca e
Laslo sarebbe stato pronto per altre imprese. Ma stavano
soffiando venti di guerra che dall'Europa arrivavano in
Egitto: l'Ungheria era un'alleata della Germania
nazista, la conquista dell'Etiopia da parte italiana
aveva rotto definitivamente l'intesa con l'Inghilterra
che durava dal Risorgimento e gli inglesi ascoltavano
con preoccupazione assolutamente ingiustificata le
minacce fasciste, temendo per l'Egitto un'invasione
dalla Libia. Le amministrazioni coloniali sono sempre
più patriottiche e nazionaliste delle amministrazioni
delle madrepatrie, più sospettose e meno inclini alla
tolleranza e quella inglese in Egitto non faceva
eccezione, anche perché i tempi non lo consentivano. I
funzionari britannici erano molto diversi da quegli
eccentrici gentiluomini, amici di Laslo e compagni delle
spedizioni e membri del Club Zerzura, così gentili,
garbati e snob. Quello era il modello esportazione,
mentre negli uffici delle colonie s'incontrava il
modello autentico, the real stuff e c'era poco da stare
allegri. Così al Cairo qualcuno s'incaricò di far notare
a Laslo che il periodo della società delle nazioni nel
deserto era finito e che doveva ripartire per Budapest.
Le sue amicizie non gli sarebbero servite a nulla,
perché gli inglesi non volevano nessun ficcanaso
straniero che andasse ancora in giro in tutta l'area dal
Nilo alla Libia, e meno che mai uno dell'esperienza e
delle capacità di Almásy.
Quando scoppiò la guerra, Laslo si trovava a Budapest
senza svolgere un'attività particolare o così almeno
sembrava. Dicono che avesse chiesto agli inglesi di
farlo ritornare in Egitto, dove si sarebbe volentieri
messo al loro servizio come massimo esperto e
conoscitore del Deserto Libico e delle sue piste. Ma gli
inglesi non si fidavano di lui e lasciarono cadere
l'offerta. Dicono anche che avrebbe fatto un'offerta
simile agli italiani, come ho accennato, anch'essa
rifiutata. Poi, nel 1940, venne contattato da un agente
dell'Abwehr, la leggendaria organizzazione del
controspionaggio tedesco, diretta dall'ammiraglio
Canaris, che lo convinse ad accettare la nomina a
capitano della Luftwaffe, prospettandogli un eccitante
incarico in Africa. Laslo non era uomo di passioni
politiche, ma di sensazioni e sentimenti e l'oggetto del
sentimento più forte era il deserto egiziano
occidentale. Il 31 marzo del 1941 l'Afrikakorps sbarcava
a Tripoli per rimediare alle debolezze italiane e Almásy
faceva parte della ristretta cerchia di ufficiali ai
quali Rommel voleva affidare compiti molto speciali.
Il primo era stato suggerito dallo stesso ungherese:
acquisire alla causa germanica el Masri pascià, capo di
stato maggiore dell'esercito egiziano, molto critico
della non tanto velata sovranità inglese in Egitto e
amico di un altro giovane militare dissidente, che si
chiamava Gamal Abdel Nasser. E subito la proposta di
Almásy venne trasformata da un ufficiale della
Luftwaffe, Nikolaus Ritter, in un'operazione da
commando: un'unità speciale doveva prelevare el Masri in
un luogo prestabilito, e portarlo via. Ma qualcosa nel
meccanismo s'inceppò e mentre Almásy in aereo sorvolava
di notte la periferia del Cairo senza nemmeno trovare
segnali di atterraggio, il pascià stava da tutt'altra
parte, inseguito dagli inglesi.
Ma se la prima operazione era stata un fallimento, la
successiva si trasformò nella più grande avventura
dell'ungherese, che gli inglesi hanno cercato sempre di
minimizzare nelle innumerevoli memorie della guerra nel
deserto. Dopo aver preso Tobruk con metà degli effettivi
del nemico, Rommel stava preparando l'offensiva finale
che avrebbe dovuto portare i soldati dell'Asse a bere
quella famosa birra ghiacciata ad Alessandria. La sua
strategia si basava, oltre che sull'efficienza
dell'Afrikakorps, sull'improvvisazione, sulla sorpresa e
sugli espedienti, che prevedevano una conoscenza
approfondita delle retrovie inglesi, e quindi dei loro
punti deboli. La frase del feldmaresciallo, «ogni
notizia vale più di venti carri armati», quando di carri
armati in Libia ce n'era un estremo bisogno, faceva
capire che i tedeschi non avevano un buon servizio
informativo al Cairo (mentre gli inglesi sapevano in
anticipo delle mosse di Rommel perché erano riusciti a
decifrare i messaggi in codice servendosi di un sistema
applicato a una macchina chiamata "Ultra"; vedi capitolo
10). Per aiutare Rommel, non fidandosi della rete messa
a punto dagli italiani, che invece funzionava bene,
Canaris decise di mandare due agenti al Cairo.
Un primo tentativo, organizzato sempre da Ritter
servendosi di due aerei era finito in modo pessimo, con
un morto e un paio di feriti, tra cui lo stesso Ritter.
Il suo posto venne preso da Almásy e con lui al comando
l'ipotesi di un blitz prolungato in territorio nemico,
una circumnavigazione del Deserto Libico - da Bengasi
verso sud fino al confine, per passare in Egitto e
arrivare ad Assiut dopo aver ritrovato l'Aqaba Pass e
tagliato fuori le pattuglie inglesi - considerata dagli
esperti di logistica un puro suicidio, diventò la
missione "Kondor". All'inizio del 1942 l'Abwehr aveva
già mandato a Bengasi i due radiotelegrafisti che
avrebbero dovuto trasmettere dal Cairo. Si chiamavano
Hans Eppler e Hans Gerd Sandstede, e avevano vissuto per
così tanto tempo in Egitto da poter essere scambiati per
disinvolti cairoti, come in effetti erano. Il commando
incaricato di portarli via terra in Egitto era formato
da uomini del reggimento Brandenburg, anche loro
tedeschi nati o residenti per molto tempo all'estero,
che non solo parlavano perfettamente l'arabo come i due
radiotelegrafisti, ma sembravano più nativi dei nativi e
molti conservavano i passaporti rilasciati dalle
autorità egiziane. Se uno di loro fosse stato fermato in
Egitto, sarebbe stato difficile capire la sua vera
identità.
La preparazione della missione durò tre mesi e mezzo,
curata con meticolosità, perché il flambloyant Laslo
conosceva bene i pericoli ai quali si andava incontro.
Per ingannare il nemico, in caso di avvistamento,
vennero recuperate due autoblinda, armate di
mitragliatrici e dotate di bussole giroscopiche, e due
autocarri. Sulle fiancate furono dipinte le croci
uncinate, mascherate da un finto velo di polvere e
sabbia, in modo da rispettare le norme del diritto
internazionale, ma anche da non consentire
un'identificazione immediata. Almásy controllò
personalmente che tutti i problemi logistici legati a
una così lunga traversata nel deserto, quasi seimila
chilometri fino ad Assiut tra andata e ritorno -
rifornimenti d'acqua potabile e di carburante e il resto
- venissero risolti nel migliore dei modi. E poco
convinto dell'esattezza delle mappe italiane, prima di
partire sorvolò in aereo il primo tratto
dell'itinerario, definito serir dai cartografi e cioè
pianura dura ricoperta di polvere e di ciottoli molto
fitti e si accorse che invece era un erg, un insieme di
dune sabbiose della profondità di duecento chilometri.
Se avessero seguito le indicazioni delle mappe,
avrebbero perso giorni preziosi.
Dopo una falsa partenza, che li costrinse a tornare
indietro perché il medico della spedizione si era
ammalato, insieme con il vicecomandante del gruppo, ai
primi di maggio del 1942 Laslo, le due spie e sei o
sette uomini della divisione Brandenburg si lanciarono
finalmente in direzione sud-sudest verso il Gilf Kebir,
dove l'ungherese sperava di ritrovare il passaggio
segreto attraverso i monti che portava all'Egitto. Nelle
Volpi del deserto di Paul Carrell, una accuratissima
ricostruzione della storia dell'Afrikakorps, nel
capitolo dedicato all'impresa di Almásy, si dice che
l'impareggiabile conte intratteneva i commilitoni con i
racconti sulle sue passate spedizioni alla ricerca di
Zerzura. E ridendo avvertiva che gli amici di un tempo,
con i quali aveva passato insieme giorni
indimenticabili, come Patrick Clayton, ora gli stavano
dando la caccia e sarebbero stati felici di farlo
prigioniero, se non di ucciderlo.
Laslo, che aveva una perfetta memoria fotografica e si
sapeva muovere tra i costoni di roccia e le dune come un
tuareg, non solo ritrovò il varco, ma recuperò un
serbatoio d'acqua ancora utilizzabile che aveva nascosto
anni prima. La via dell'Egitto era aperta, le pattuglie
del Long Range Desert Group di Bagnold tagliate fuori e
la spedizione continuava ad avanzare senza essere
avvistata o intercettata. Ma nell'oasi di Kharga, dopo
essere riuscito ad evitare tutti i posti di blocco
disseminati lungo le piste, il commando si trovò di
fronte a una pattuglia di soldati egiziani. Naturalmente
era un'ipotesi prevista e lungamente studiata, ma tutti
sapevano che alla prima mossa sbagliata sarebbero stati
uomini morti. Una delle doti di Almásy era quella di non
perdere mai il controllo dei nervi in situazioni
difficili. Disse a tutti di tirare fuori le pistole e di
non muoversi se non dopo un suo comando preciso. Poi
ordinò ad Eppler di aprire il finestrino dell'autocarro
e di presentare il commando come l'avanguardia della
divisione. L'interpretazione del tedesco, che di un
attore aveva sicure doti e anche certe abitudini, come
poi vedremo, fu semplicemente perfetta. Parlando
velocemente in dialetto cairota come un mercante di Khan
el-Khalili e avendo provato quella scena decine di
volte, spiegò al soldato di guardia quanta fretta
avessero e come avrebbe fatto bene a mettersi da parte,
perché dietro di loro stava arrivando un generale. Ma il
soldatino non si lasciò intimidire, rispose che il suo
reparto avrebbe volentieri fatto a meno di questo onore
e qualcuno dei brandeburghesi, temendo il peggio,
cominciò a sollevare la pistola. Poi il soldatino,
pensando d'essere andato troppo in là, fece
improvvisamente segno che potevano passare e già nel
pomeriggio dello stesso giorno il commando era arrivato
a dieci chilometri da Assiut. Qui Laslo scattò alcune
fotografie del cartello stradale che diceva "Assiut - 10
chilometri" - nessuno metterà mai in dubbio il successo
dell'impresa, ma una prova in più poteva risultare
sempre utile - e Sandstede e Eppler fumarono con lui
un'ultima sigaretta. Infine le due spie, dopo essersi
infilati in abiti civili, si avviarono a piedi verso
Assiut, nelle nuova identità di giovanotti cairoti, come
doveva provare tutto quello che avevano indosso, dalle
targhette del sarto cucite sui vestiti ai documenti, dai
conti ai biglietti usati di cinema, dall'agenda
dell'Automobil Club del Cairo al portachiavi di
un'automobile lasciata da qualcuno poco distante. In una
delle due valigie che si trascinavano dietro c'era la
radio rice-trasmittente e nell'altra ventimila sterline,
quelle buone e non quelle contraffatte in Germania.
Il viaggio di ritorno verso la Libia dei tedeschi fu
ancora più tranquillo dell'andata. L'abilità mimetica di
Almásy sembra fosse così sperimentata che al primo
apparire a distanza di nuvole di polvere, che
segnalavano la possibile presenza di una pattuglia
nemica, il commando diventava di colpo parte del
deserto, come una roccia o una duna, assolutamente
indistinguibile dal resto del panorama. E il suo senso
rabdomantico, acuito in anni di spedizioni, era
diventato così sorprendente e quasi animalesco, che lo
portò a individuare un posto di rifornimento del LRDG
(Long Range Desert Group) con quindici autocarri,
carburante e viveri, nascosto tra le rocce del Gilf
Kebir. Questi successi dell'ungherese sono appena
accennati nei libri che celebrano le avventure dei vari
commando britannici durante la guerra nel deserto, credo
per la ragione che furono quasi tutti pubblicati negli
anni immediatamente successivi alla guerra, quando la
storia, come sempre, la scrivevano i vincitori. Così
sono ancora molti a credere che Montgomery sia stato un
grande generale e che i commando inglesi nel deserto non
abbiano avuto rivali. Anche sulle avventure delle due
spie tedesche al Cairo hanno scritto in molti, tra cui
Ken Follett: si presentavano così puro cinema di secondo
ordine, anche sfrondando di tutto il colore esotico,
delle esagerazioni, dei racconti arricchiti, che era
impossibile ignorarle. Con una differenza non da poco
rispetto agli abituali ritratti delle spie naziste
fanatiche, spietate ed efficienti. Camerata Eppler e
camerata Sandstede erano piuttosto inefficienti,
sembravano fregarsene del Terzo Reich e pensavano
soprattutto a godersela con le sterline affidate loro
incautamente dal camerata Canaris. Al loro fianco si
muoveva una ballerina, nel caso particolare una
danzatrice del ventre, tale Hekmat Fahmi, che per quanto
conturbante, stento a credere che fosse in grado di
carpire i segreti dell'VIII Armata agli ufficiali
trascinati nella sua alcova. Ecco come viene descritta
in Volpi del deserto: «Dove danza scrosciano gli
applausi, piovono fiori e i camerieri hanno un gran da
fare a recapitarle i biglietti da visita dei facoltosi
ammiratori. Hekmat si muove come una regina con il suo
seguito, tanto numerosi sono i suoi ammiratori,
protettori e amici. Il suo interesse, tuttavia, è un
bey... Hussein Gaafar. In effetti, è un agente del
servizio d'informazioni tedesco, Hans Eppler».
Il giovanotto tedesco aveva affittato una lussuosa barca
con i mobili in mogano, i sofà in velluto di damasco e
seta indiana e tutto il resto, attraccata sul Nilo
vicino a quella della danzatrice e a una terza barca, il
cui proprietario o affittuario era un maggiore
dell'Intelligence inglese, la vittima designata. Questo
maggiore partecipava con entusiasmo, insieme con altri
suoi colleghi alle feste in barca date da Buontempone
Eppler e sicuramente familiarizzava con Monique,
Suzette, Fatma, Farida, Nadia e numerose altre signorine
chiamate a rendere l'atmosfera più allegra. Ma non è
affatto chiaro che fosse così cretino da rivelare
notizie riservate davanti a Hekmat che scuoteva le anche
con la velocità di un frullatore. Quando Sadat andò a
dare un'occhiata alla barca, trovò l'apparecchio radio
in perfetto ordine, ma rimase stupefatto per il clima di
baldoria. «Era un posto che sembrava arrivare
direttamente da un racconto delle Mille e una notte,
dove ogni cosa invitava all'indolenza, alla voluttà e al
piacere dei sensi», scriverà nelle sue memorie. «In
questa dissoluta atmosfera i giovani nazisti avevano
dimenticato la delicata missione che gli era stata
affidata».
Qualcosa d'importante, alla fine, Eppler riuscì a
sapere, da un ufficiale inglese ubriaco, di cui non è
stato rivelato il nome. Ma i tecnici tedeschi di una
postazione avanzata, incaricati di ricevere i messaggi
(cifrati attraverso le pagine di Rebecca, romanzo di
Daphne du Maurier) e poi di passarli a Rommel, vennero
fatti prigionieri durante un'incursione degli inglesi.
Così, quando Eppler e Sandstede cominciarono a mandare i
segnali di riconoscimento, in attesa di trasmettere, il
comando tedesco aveva già dato ordine di non rispondere,
perché esisteva il rischio che anche i codici fossero in
mano del nemico. Sarà lo stesso Rommel a spiegare a
Laslo il fallimento dell'operazione e nello stesso tempo
a decorarlo per la sua magnifica impresa. Qualche
settimana più tardi Eppler, Sandstede e Sadat vennero
arrestati dagli uomini di Sansom. Si salvarono dalla
fucilazione perché gli inglesi avrebbero dovuto fucilare
anche Sadat, e questo sarebbe stato troppo rischioso e
provocatorio in Egitto in quel momento così delicato,
quando tutti aspettavano che il feldmaresciallo,
diventato famoso per le sue mosse imprevedibili,
sferrasse l'attacco finale.
A questo punto, nelle carte che avevo accumulato, Laslo
von Almásy letteralmente scompariva, per riaffiorare in
Ungheria alla fine della guerra, dove veniva arrestato
dai sovietici sotto l'accusa, difficile da confutare, di
aver collaborato con i nazisti. Un'accusa equivalente
alla certezza di una condanna a morte. Invece, dopo
averlo tenuto segregato e malmenato per qualche mese, i
sovietici furono così generosi da consegnarlo alla
giustizia ungherese, che lo rilasciava alla fine di un
processo risolto con un'assoluzione per mancanza di
prove.
Che interpretazione bisognava dare della imprevedibile
clemenza dei sovietici, per nulla inclini a perdonare
soprattutto i collaboratori dei nazi, ma pronti a fare
scambi vantaggiosi, quando se ne presentava l'occasione?
Scartata l'ipotesi della bontà d'animo, c'era la
possibilità che i servizi segreti russi, impressionati
dal curriculum di Laslo e dalle sue conoscenze nel mondo
internazionale, l'avessero arruolato sotto le loro
bandiere, con l'intenzione di infiltrarlo da qualche
parte, di nuovo al Cairo o altrove. Chi meglio di lui
poteva raccogliere preziose notizie, fingendo di
continuare la sua vita di avventuriero gentiluomo? Ora
che la guerra era terminata, si potevano riallacciare le
antiche amicizie con alcuni dei vincitori, che sotto una
finta indifferenza, avevano continuato ad ammirare il
suo coraggio, la sua eleganza e le sue imprese. E
infatti poco tempo prima che morisse a Salisburgo di
"dissenteria", era stato nominato dagli egiziani
direttore del Desert Institute del Cairo. Ma gli inglesi
erano così ingenui da lasciar affidare un posto simile
non tanto a un ex nemico, ma a uno uscito indenne dalle
galere del Kgb? E Laslo lavorava anche per loro? Era una
doppia o tripla spia?
Nell'oasi di Siwa avevo tutto il tempo per farmi simili
domande, ma nessuna possibilità di continuare le
ricerche. Solo parecchio tempo dopo essere tornato in
Italia, girando a zonzo su Internet, in una di quelle
pigre e distratte serate in cui uno naviga a casaccio,
trovai altre due o tre informazioni che non conoscevo.
Erano brevissime e dicevano che Laslo era riuscito a
fuggire dall'Ungheria nel 1947 e aveva vissuto un breve
periodo in Italia, prima di tornare di nuovo in Egitto
con l'aiuto degli inglesi. Poi improvvisamente comparve
sul video un articolo mai visto prima e scritto da una
signora (immagino) che si chiamava Jane Perlez e
lavorava a Budapest per il "New York Times". La Perlez
avanzava molto cautamente l'ipotesi, facendo riferimento
ad altre testimonianze, che Laslo avesse barattato la
sua libertà passando ai sovietici una notizia
estremamente riservata e clamorosa. La notizia era che
la famiglia Esterházy, una delle grandi casate del
paese, stava trasportando di nascosto tutti i suoi
tesori in Egitto, con la connivenza di un funzionario
statale di alto livello. Come conferma
dell'attendibilità della vicenda, veniva ricordato il
caso di Victor Chornoky, genero di Zoltán Tildy, allora
presidente dell'Ungheria, richiamato dal suo incarico di
ambasciatore al Cairo, condannato a morte e impiccato.
Era lui l'alto funzionario.
Nell'articolo si davano anche informazioni sulla
omosessualità di Laslo. Un regista austriaco, Kurt
Mayer, che di recente aveva preparato un documentario su
Almásy in Africa nel 1929 con materiale inedito, era in
possesso di circa ottanta appassionate lettere mandate
dall'ungherese a un giovane ufficiale dell'esercito
tedesco. Leggendo queste lettere si capiva che stava
disperatamente tentando, attraverso le sue conoscenze,
di far cambiare destinazione all'ufficiale, in partenza
per il fronte russo. Ripeto questi dettagli per amore di
completezza, perché quello che faceva Almásy in privato
erano affari suoi.
Sebbene barcollanti, le ipotesi reggevano e confermavano
il sospetto che fosse diventato spia dei russi e che
eventualmente, una volta passato in Occidente, avesse
tentato di liberarsi della loro tutela rivolgendosi ai
vecchi nemici di una volta, gli inglesi. Quest'ultima
mossa potrebbe aver provocato il disappunto dei russi ed
essere stata la causa della "dissenteria", una vicenda
che non ha mai attirato l'interesse di nessuno, perché a
tutti è sembrato normale che Laslo morisse in quel modo
a Salisburgo, magari nella toletta del caffè Tomaselli.
Ma forse sono io che esagero.
(*) Tratto da "Il grande mare di sabbia. Storie del
deserto" di Stefano Malatesta, Ed. Neri Pozza, Milano,
2001.