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Taj Mahal
KD 2013 - traversata da Kathmandu a Delhi attraverso Uttar Pradesh, Madia Pradesh e Rajastan

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Taj Mahal

Il più grande monumento del mondo all’amore sorpassa sempre ogni aspettativa. Bagnato dai rossi raggi dell’alba, ammorbidito dal tramonto, persino nella cruda bianchezza dell’abbagliante mezzogiorno è sempre sublime.

Quando l’amata Mumtaz morì, nel 1631, Shah Jahan concentrò le sue energie sul mausoleo. Si pensa che 20.000 operai e artigiani, anche europei (1), iniziassero i lavori nell’anno seguente, completando il capolavoro 21 anni dopo. La tomba-giardino moghul, espressa per la prima volta nel mausoleo di Humayun a Delhi giunge a un grado estremo di raffinatezza, ma qui, da lontano, le proporzioni appaiono più armoniose, da vicino il minuzioso lavoro in pietra dura si fa più preciso. Inoltre il marmo bianco puro del mausoleo, in luogo dell’arenaria, si staglia contro il cielo, ulteriormente illuminato dalle acque del retrostante Yamuna.

Tre sono le porte d’accesso al complesso: quella occidentale, ove trovate la biglietteria, quella sud cui si giunge percorrendo strette viuzze che contrastano vivamente con la tomba, e quella orientale. Da quest’ultima un vicolo scende verso il fiume ove si scoprono altre vedute e da dove talvolta si può prendere un traghetto per l’altra riva.

Se non sono cadute le piogge, si hanno splendide viste sul Taj dalle rive, ma fate attenzione a non calpestare cetrioli, cocomeri e meloni di qualche intraprendente contadino locale. All’interno, oltrepassata la scuola che si tiene sui prati e i negozi, un tempo locande per i viaggiatori, l’iscrizione sul grande portale prepara i viaggiatori. È il capitolo 89 del Corano, detto Al Fajr (dell’Alba), che conclude «0 anima che ristai. Ritorna al Signore, in pace con Lui com’Egli in pace con te. Entra dunque come uno dei Suoi servitori. Entra nel Suo giardino».

Oltre il portale, in fondo al giardino lussureggiante diviso dai corsi d’acqua e circondato da alberi e da un alto muro, sorge il Taj. Sulla sinistra della piattaforma v’è la moschea, a destra il Mehman Khana (Casa degli Ospiti). Le acque dividono il giardino in quattro parti, il char-bagh. Quanto alle piante originali, erano talmente trascurate che Lord Curzon le fece togliere e ripiantò tutto a nuovo. Saliti sulla piattaforma, l’esterno è ricoperto di versetti del Corano, in sculture a bassorilievo e disegni a intarsio geometrici e floreali, sempre perfettamente equilibrati. All’interno, i monumenti funebri di Mumtaz (al centro) e Shah Jahan (a forma di astuccio) sono situati nella sala ottagonale protetti da grate. Sotto ad essi, in fondo alla ripida e buia scalinata, si trovano le tombe vere e proprie.

L’iscrizione su quella di Shah Jahan gli attribuisce i titoli di Razwan (guardiano del paradiso) e Firdaus Ashyanai (abitante del paradiso). Per inciso, è poco credibile la teoria secondo cui Shah Jahan avrebbe progettato un Taj nero per sé sull’altra riva del fiume.

 

(1) In Le forme dello spirito asiatico, Tucci dedica il capitolo Pionieri italiani in India principalmente alla figura di Jeronimo Veroneo, orafo veneziano, che egli ritiene possa essere il progettista del Taj. Sulla base di testi indiani ed inglesi, vengono confutate le varie versioni sui presunti progettisti del Taj. La tomba di Veroneo (m 1640) fu da Tucci ritrovata nel cimitero cattolico di Agra, dove pure si trova quella del missionario Bernardino Maffei (m 1628) e Hortensio Bronzoni (m 1677),lapidario di corte di Shah Jahan e Aurangzeb.

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