Biafo-Hispar

Su 1979 Diario Biafo-Hispar Shimshal e Batura Baltoro-Biafo-Hispar

Biafo   Hispar una grande traversata

di Paolo Civera

Una grande traversata del Karakorum. Da tempo era nei pensieri, ma l'87 incalzava e ci voleva più tempo. Uno stupendo volo sul Pacifico con sette meravigliosi compagni di viaggio ed intanto l'87 ne maturava la possibilità. Paolo concretizzava i giusti contatti in Pakistan. Vittorio preferisce non metterla sul giornalino: « Questa è una spedizione! Vedremo». Poche le descrizioni: quella di Desio del '54 subito dopo l'indimenticabile conquista del K2 e l'altra dei ragazzi del CAI di Parma (R.M. dicembre 1983). In effetti è un giro che non ha avuto mai molte ripetizioni. Non credo di esagerare dicendo che con noi dieci, di Italiani, in questo secolo non ne sono passati più di trenta. Inizio a parlare di questo viaggio quasi confidenzialmente. La voce appena appena diffusa corre veloce. In un attimo siamo in dodici. Il grosso è formato dal gruppo Valtellinese, ma anche da Vicenza, Torino e Milano arrivano iscrizioni.

Ci caliamo nel caldo del Pakistan il primo di agosto con la fregola di raggiungere le alte valli. i nomi dei luoghi ci sono familiari. Gilgit, Skardu, Askoley fanno parte della storia dell'alpinismo e delle grandi conquiste. dalla famosissima e colta spedizione del Duca d'Aosta nel 1909, al K2 degli Italiani, ai Gasherbrum di Messner in stile alpino, alla tragedia di Casarotto fino alle continue spedizioni degli ultimi anni.

Ma Skardu non è così facile da raggiungere.

La KKH è chiusa poco dopo Chilas da una frana caduta un'ora prima del nostro arrivo. Sono le sette di mattino e siamo già lì fermi, bloccati. Supero a piedi la frana sprofondando nel fango fin oltre al ginocchi. Di là ci sono altri mezzi fermi che sarebbero disposti a cambiare destinazione. Karim, la nostra guida, propende di attendere sperando che la pala meccanica riapra prontamente la strada. Si preoccupa del trasbordo di tutti i bagagli visto che si sprofonda nel fango. Così siamo lì sotto il sole ed alle due del pomeriggio non è cambiato nulla. Ora sul corpo della frana si passa a piedi, poiché sono stati gettati dei sassi. Insisto per trasbordare tutto. Liquidiamo il bus ed affittiamo un pulmino ed un pick-up. In due  ore trasbordiamo i bagagli, una sosta da tre bibite a testa, poi la deviazione per Skardu dalla KKH, saliamo lungo questa valle di 170 chilometri sempre con l'Indo che scorre in fondo al dirupo fiancheggiante la strada.  Fa buio ed  i due conducenti guidano troppo veloci nonostante continuiamo a pregarli di andare più piano. Sempre più buio e Skardu è ancora lontano. a furia di tirarli al massimo uno dei mezzi si grippa. Siamo fermi in mezzo alla strada in piena notte. Fortunatamente ai bordi della carreggiata c'è un piccolo spiazzo. Ci stiamo sistemando per passare la notte quando sopraggiungono tre camion carichi di vacche. otteniamo un  passaggio. saliamo tre per camion all'imperiale, godendo in pieno della poca luminosità delle stelle che trapela nella valle. Grande senso di mistero e di avventura, poi sonno.

Karim con un partecipante ci precede con il pick-up. trasaliamo quando alle due di notte ci ferma per farci accomodare al Shangrilla, albergo che si trova a 28 chilometri prima di Skardu. Ci sembra veramente di sognare: dopo una valle così aspra ci troviamo ai bordi di uno stupendo laghetto con le anatre, attorniato dalle abitazioni a villino dell'Hotel e da piante cariche di frutta. Lo gusteremo ancor più all'indomani con la giornata splendida nell'attesa dei mezzi per raggiungere Skardu.

Giungiamo in mattinata nell'ampia oasi di Skardu, poi proseguiamo su per la valle di Shigar attraverso piccole oasi con relativi villaggi. Si lavora nei campi: i bimbi offrono albicocche, ruscelli sapienti scorrono a lato dei poderi. E' tutto troppo bello e risaputo.

Arriviamo a Dassu. Ci sono tende ai bordi dell'ultimo tratto di strada. Altri trekker e spedizioni che attendono di partire. Troviamo posto per il nostro bivacco. Intanto dei francesi ci segnalano che ci sono problemi per reperire i portatori. Karim lo conferma. Dobbiamo andare lui ed io ad una riunione dei tour-leader e delle guide che verrà tenuta presso il capo della polizia. Siamo sei gruppi nutriti, uno inglese, due spagnoli, uno francese, una spedizione tedesca e noi, come si suole dire, ultimi arrivati. Salta fuori che per muoversi tutti occorrono trecentocinquanta portatori, diconsi 350. Resto comunque esterrefatto quando Karim dichiara che noi avremo bisogno di quaranta uomini! Ritengo di avere una discreta esperienza di trekking. Mi sono mosso con muli, asini, cavalli, ed anche con porter come nella valle dell'Everest, ma non avevo mai avuto bisogno di così tanta gente. Mi sembra impossibile ma Karim fa i conti: tanti per i bagagli dei member, tanti per la cucina, tanti per i fornelli, tanti per i viveri, tanti per il kerosene, e così è. Come faremo? Abbiamo problemi di tempo perché due di noi devono tornare in Italia una settimana prima: faccio i conti, non abbiamo giorni da buttare via anche perché i programmi si fanno con il bel tempo. Se viene brutto durante il trekking, quali  altre sorprese ci si presenteranno?

In ogni caso un giorno di fermo a Dassu appare scontato. L'indomani vediamo i Francesi che se ne vanno. In effetti già alla riunione organizzativa della sera erano quelli meno inibiti. Erano li da due giorni e necessitavano solo di altri 8 portatori per completare.

Un gruppo di meno, penso. Nel pomeriggio parte un gruppo di spagnoli con solo mezzo carico, il resto li raggiungerà il giorno dopo. Verso sera, quando ormai si pensava che non ci fossero più novità vanno via gli Inglesi. E tre. Ragionevolmente si riaprono le speranze. Karim è via da tutto il giorno e non ho più notizie. Stiamo finendo di cenare, quando lo vediamo arrivare. Ha buone nuove: ha ingaggiato 20 portatori e ha già altri contatti per l'indomani. A suo parere dovremmo poter partire.

La mattina i portatori che si presentano sono 12 invece di 20. Karim sembra preoccuparsene anche se sono solo le 7,30. Subito dopo colazione se ne va. Noi passiamo la giornata ciondolando intorno alle tende in attesa di novità. All'ora dello spuntino del mezzodì ricontiamo i portatori che sono diventati 21. Smontiamo il campo e prepariamo i bagagli fiduciosi in una pronta partenza. Rilevo le generalità dei porters per l'assicurazione. Ho bisogno di un interprete e Adalat, il cuoco, si presenta con i suoi 30 vocaboli di inglese. Molti non sanno la propria età e mostrano fogli gualciti dai quali Adalat rileva l'anno di nascita.

L'abbigliamento dei porters è sorprendente: non indossano un capo che non abbia strappi e sorvoliamo sulla data dell'ultimo lavaggio a fondo dei loro indumenti. La maggior parte calza dei sandali, altri hanno una sorta di scarpe consistenti in uno scafo di plastica a cui mancano le stringhe. Hanno però, in genere, un aspetto simpatico.

Alle 14,30, alleluia, arriva Karim con altri otto portatori. Mentre prendo le generalità, Karim inizia la pesatura e suddivisione dei carichi, sono 25 Kg a testa. Se qualche sacco pesa meno aggiunge un telo o i pali della tenda cucina.

Alle 15 partiamo. Rimane Karim che attende ancora 8 portatori per completare il fabbisogno. In realtà non è l'ora migliore per partire. Ci saranno 40, ma siamo fermi da troppo tempo e il caldo passa in secondo piano. Procediamo con gli ombrelli aperti che ci danno un po' di sollievo e ci fanno sembrare dame dell'800.

Il panorama è aspro, tipico delle vallate del Karakorum. Si vedono, in lontananza, verdi oasi rigogliose. Ogni tanto c'è un guado. Togliamo le scarpe e i pantaloni per calzare i sandali di plastica. Spesso non ci rivestiamo poiché il percorso è comodo e si cammina così bene. La tappa è breve. Ci fermiamo dopo tre ore ad Appaligon: uno spiazzo, due povere case ed una piccola oasi. I cuochi sono già al lavoro e in poco tempo apprestano la cena.

E' già buio, ma ormai siamo partiti e qualsiasi cosa succeda ci va bene. Sopportiamo anche la seconda tappa che è stata caratterizzata da una giornata caldissima col sole a picco e senza la pur minima possibilità di ombra durante il percorso. In parecchi punti il sentiero è ardito quando precipita verso il fondo delle valli che tagliano trasversalmente la valle principale. Tutti riconoscono la perizia dei portatori che, nonostante i loro carichi, si muovono con sicurezza e agilità.

Qualche guado è preoccupante, ne ricordo uno in particolare dove scendeva irruente un torrente di melma. Si è ostruito a causa di una piccola frana fortunatamente dopo il nostro passaggio per poi irrompere furioso quando il peso della massa d'acqua ha sforzato la diga di terra trascinando a valle tutta la fanghiglia. In questo punto alcuni portatori attardati non sono riusciti ad attraversare perché il torrente si era ingrossato. Hanno dovuto aspettare la mattina successiva. Poniamo il campo in uno spiazzo pianeggiante solcato da un ruscello. Appena sopra una giusta cascatella che ci ha permesso meravigliose docce.

E che dire dei villaggi? Il primo grosso è Chongo, lo ricordo con piacere per un sorprendente incontro. Un Baltì stava seduto su un muretto fuori dalla propria casa attorniato da alcuni bambini. Ci soffermiamo un attimo e lui (poteva avere fra i 50 e i 60 anni) ci chiede se siamo Giapponesi.  Qualcuno probabilmente dice «Italy» e lui di rimando «Desio, Bonatti, Lacedelli, Abram, Compagnoni, Puchoz...» e ci fa segno con le dita sul collo per dirci che è morto. Sono i componenti della famosa spedizione del "54 al K2. Gli chiedo se ha fatto il portatore per la spedizione e mi dice di sì. Restiamo comunque sorpresi che a distanza di 34 anni si ricordi così bene i nomi dei partecipanti.

Anche il capo villaggio di Askoley ha fatto il portatore per gli Italiani, e anche lui mi ripete la filastrocca dei nomi. Provo a dire il nome di altri nostri alpinisti: Messner, Casarotto, Da Polenza, Vidoni, Calcagno, ma sembrano illustri sconosciuti. Invece a Rawalpindi un tassista, saputo che eravamo italiani, ci chiede se conoscevamo i climber Gianni ed Agostino. Si riferiva a Calcagno e Da Polenza.

Oltre a ciò, nei villaggi: orti ben curati, i campi con le spighe d'oro, le case di terra dal tetto piatto così ben mimetizzate nella natura , le ragazze e le donne che si vanno a nascondere, ma restano curiose a spiarci protette dietro ai loro ripari.

Che dire poi delle pozze d'acqua sulfurea a 30<198> che, come grandi vasche da bagno, ci hanno accolto per un magnifico ristoro? Ci lasciano la pelle liscia e morbida, poi in un baleno siamo ad Askoley, ultimo villaggio prima dei grandi ghiacciai.

Arrivare ad Askoley è stato un po' rientrare nella dimensione turistica. Nell'area prospiciente alla scuola, che è usualmente adibita a campeggio, sono attendati gli Spagnoli che erano con noi a Dassu. C'è un gruppo di Giapponesi che rientra da una spedizione. Poi c'è il tour leader australiano dei trekkers inglesi per il Concordia che si è attardato con due partecipanti che non stanno bene.  E' lui che ci da la notizia di un Italiano che ha salito da solo il Broad Peak.

Lo cerchiamo: è Claudio Schranz. Faceva parte di una spedizione di cinque persone che a turno hanno avuto problemi di salute. Ormai era già piazzato il campo a 7.100 metri, così Claudio, sentendosi bene, non ha voluto rinunciare. Molto duro l'ultimo balzo da 7.000 alla vetta perché si sprofondava nella neve. Ha impiegato 16 ore. La sera, naturalmente, è invitato a cena con noi, come pure il suo portatore, un hunza di Shimshal che ha familiarizzato subito con Karim ed i nostri cuochi.

Nei pressi di Askoly c'è uno degli ultimi ponti di salici che sono rimasti: un bellissimo arco di circa 150-200 metri che serve a recarsi a Mongiong, villaggio sul lato sinistro del Biaho. Dopo aver acquistato due montoni lasciamo Askoley, ultimo villaggio Baltì, e ci inoltriamo nella valle. Ancora incontri di spedizioni di ritorno: sono Francesi, hanno tentato il Chogolisa. Nessuno in vetta.

Arriviamo finalmente al Biafo che sbarra, con la sua imponente massa, la strada a chi vuole recarsi sul Baltoro. Noi, invece, lo vogliamo risalire. Iniziamo tenendoci sui bordi al di fuori delle more. Sono imponenti questi ghiacciai, molto larghi e con notevole spessore di ghiaccio: tra i 50 ed i 100 metri. Nella parte bassa, quando sono ancora «black glacier» perché coperti da detriti, hanno un aspetto triste e dimesso. A percorrerli sono indisponenti per il continuo su e giù, per l'attenzione a dove mettere i piedi ed ancora per l'aguzzare l'intuito a scegliere la direzione più redditizia.

Riusciamo a piazzare i primi campi tutti sull'erba, in luoghi riparati. Il panorama è sempre dominato dall'incombere di queste cime alte sulle nostre teste. Poi giungiamo al ghiacciaio bianco. Si snoda davanti a noi ampio ed a perdita d'occhio.. Alle nostre spalle la parte risalita ci fa la stessa impressione. Sono 60 chilometri per arrivare allo Snow Lake, il lago di neve, e sono sessanta chilometri attorniati da bellissime vette quasi tutte inviolate.

Avevamo programmato una salita, ma i pochi giorni che ci restavano erano appena sufficienti per consentire a due compagni che avevano una settimana in meno a disposizione di rientrare in tempo. Ad ogni buon conto non ci sono vette «facili» da salire. Ciascuna ha una caratteristica sua: chi pareti di roccia verticali, chi ghiacciai con seracchi pensili o pericolose cornici. A nostro avviso, nessuna da salire in giornata. Occorre tempo. Credo che se in futuro si voglia considerare l'ipotesi di una salita sia meglio farlo dopo il superamento dell'Hispar, così, in caso di peggioramento del tempo non si rischia di rimanere bloccati prima del passo. A molti potrebbe sembrare monotono il camminare per giorni su un ghiacciaio, ma sia il panorama che la morfologia del ghiacciaio stesso cambiano continuamente.

Più saliamo, più grossi sono i torrenti glaciali che scorrono impetuosi nel loro verde letto di ghiaccio per poi scomparire in buchi di due metri di diametro. Il Biafo sembra completamente nostro ed il tempo è da più giorni costantemente bello, addirittura abbiamo più volte sereno totale. Sembra che si possa concludere bene questo itinerario che è la più lunga traversata glaciale non artica. Non abbiamo punti di riferimento precisi e non sappiamo quanto ghiacciaio abbiamo percorso anche perché i continui saliscendi confondono le valutazioni.

Poco prima di mettere il campo a 4.500 metri l'incontro con tre Inglesi che scendono dallo Snow lake. Sono saliti soli lasciando i portatori ad un giorno di marcia più sotto, lungo il Biafo. Hanno ispezionato lo Snow Lake, da lì lo si vede sulla sinistra. Salutiamo e traversiamo le noiose barriere per cercare un punto asciutto per il campo. La posizione scelta è paesaggisticamente meravigliosa. Va bene anche logisticamente poiché consente ai portatori di arrangiare sistemazioni fuori dalla neve. Noi poniamo il primo campo sul ghiacciaio. La serata è fredda. Distribuiamo ai portatori tutto quello che abbiamo di superfluo per proteggerli dal freddo. Domani supereremo il passo Hispar: speriamo in bene.

Sbircio fuori dalla tenda, abbiamo una giornata sfolgorante. Cerchiamo di accelerare i tempi soprattutto per portarci al più presto nei pressi del passo Hispar, visto che dobbiamo cercarlo. E' sorprendente che su quaranta persone al nostro seguito, che di professione accompagnano gruppi di trekker e spedizioni, nessuno abbia mai fatto questo itinerario...

Ci incamminiamo. Il ghiacciaio è più insidioso: crepacci visibili ma ponti non perfettamente valutabili a causa della neve che copre la superficie. Ci leghiamo in tre cordate e continuiamo la marcia fino a raggiungere la grandiosa spianata antecedente allo Snow Lake. Da lì con cartina e bussola valutiamo la situazione. L'Hispar è proprio lì: intuibile e logico. E' proprio quello che avevo additato agli Inglesi e mi avevano detto no!!!

Ci portiamo fino ai piedi del passo e attendiamo la guida ed i portatori che stanno arrivando. Indico a Karim il passo. Non mi vuole credere. Gli mostro la carta, gli spiego come si fa a trovarlo con la bussola. Non lo vedo molto rassicurato. Saliamo lentamente perché la quota un po' si sente. La salita non è ripida, ma continua e con molto sviluppo. Il passo è ampio e per un buon tratto pianeggiante. Non fa per niente freddo, ci soffermiano nel punto più alto a 5.151. metri.

Visibile soddisfazione generale. Stupendo panorama sullo Snow Lake che è una spianata di circa sette chilometri di diametro coronata da picchi di oltre seimila metri. Bella vista sulla impressionante parete nord del Latok. Ai nostri piedi si snoda l'Hispar. Un altro ghiacciaio così grande non esiste in questa zona, ciò nonostante Karim mi si avvicina chiedendomi, furtivamente, se siamo sicuri che si tratti dell'Hispar. La cosa si ripeterà anche nei giorni successivi.

Iniziamo a scendere. L'obbiettivo è un posto riparato. Sfruttiamo la pendenza per rendere la discesa più veloce, ma dopo il primo tratto ghiacciato è di nuovo piano come il Biafo. Siamo in marcia da ore e desideriamo fermarci. Questa volta siamo costretti a bivaccare sul ghiaccio. E' molto freddo. Se avessimo dovuto cucinare non l'avremmo fatto. Invece ecco un buon tea, poi la soup, il riso con il dahl e le patate bollite. E' un piacevole ristoro, anche se mangiamo in piedi e velocemente perché si raffredda tutto. Ultimo sguardo alle vette scintillanti nel cielo azzurro e poi via in tenda che non è ancora buoi. Ci sveglia il fruscio della neve sulla tenda. Guardo fuori e vedo che nevica fitto penso non da molto perché ne sono caduti tre-quattro centimetri solo. Dalla tenda cucina giungono dei rumori: la neve non ha frenato l'operosità dei cuochi. Che lusso anche la frittata! Sembra coperta di zucchero come fosse un dolce; il chapati sembra una brioche e la tazza di tea scalda le mani intirizzite. Siamo tutti più lenti nello smontare il campo, anche se desideriamo proseguire ed abbassarci di quota il più possibile.

L'Hispar non è un'autostrada bella come il Biafo: è tutta un susseguirsi di mammelloni interrotti da laghetti glaciali o da profonde spaccature. Siamo costretti ad una continua serpentina alla ricerca dell'itinerario più vantaggioso. Occorre stare vicini per non perderci di vista perché si scompare letteralmente nelle depressioni dei continui saliscendi. Decidiamo di radunarci. a gruppetti ci ritroviamo. Manca Michele che già dall'inizio seguiva già attardato con due porter.

Scegliamo una posizione alta per scrutare il ghiaccio tenendosi a distanza per coprire un'area più vasta. Dal punto di vedetta li vedo tutti molto bene. Intanto Michele viene avvistato, ci aveva superato ed ora sta salendo verso di noi. Non valgono né urla, né fischi, né lo sventolare di una giacca rossa per richiamare i soccorsi che risalgono l'Hispar. Quattro persone raccolgono il segnale e rientrano. tre continuano. Ci sembra incredibile che non facciano riferimento al punto di vedetta per un'eventuale segnalazione. La ricerca continua e non li vedo più. I tre sono Jean, l'aiuto-guida con Mario e Nicola. Siamo fermi forzatamente per attenderli e siamo in ansia perché alla fine del pomeriggio non li vediamo ancora rientrare. Il tempo è sempre brutto. La pioggia si alterna alla neve. Fortunatamente la visibilità sotto i 5000 metri è decente. Viene sera e continua a salire la nebbia. Aumentano le preoccupazioni. E l'Hispar, con scarsa visibilità diventa un labirinto. Non vorremmo che i nostri amici fossero costretti a bivaccare senza attrezzatura. Organizziamo uno sbarramento del ghiacciaio ponendoci a cento metri l'uno dall'altro a tiro di voce e con i frontalini in testa. La nebbia va e viene. Finalmente un grido: «Eccoli!». Mariano li ha individuati: stanno rientrando nella giusta direzione. Andiamo loro incontro felici che tutto si sia concluso. Il resto non ha più storia. Giganteschi ghiacciai laterali si inseriscono nell'Hispar precipitando da montagne di 7000 metri le cui cime sono ancora nascoste dalle nuvole che stanno ritirando la loro minaccia. Lunghissima l'ultima tappa con meta il villaggio Hispar. Sempre li in vista, quasi a portata di mano, ma non si arriva mai. Il ghiaccio si infrange come una grossa onda contro una scogliera che ci obbliga a faticosi saliscendi. Finalmente raggiungiamo il terrazzo morenico a 3500 metri dove è posto il villaggio.

E' il tramonto. Una poesia indescrivibile ci invade. Rallentiamo il passo per godere del verde smeraldo dei campi che gioca con l'oro delle spighe mature. L'aria è dolce, lenti pennacchi di fumo salgono dalle case di Hispar rannicchiate l'una vicino  all'altra per lasciare più spazio alle coltivazioni.

Un gruppo di bambini ci da il benvenuto.

Ci sentiamo a casa.

Un settemila senza nome

di Vittorio Kulczycki


dal 1° gennaio 2002

MV' News letter - Tibet - Ladakh - Zanskar - Nepal - Himalaya
tibet, ladakh, kashmir, nepal

guida
Kashmir

guida
Nepal

guida
Ladakh