Versione con fotografie colori in PDF
"Avventure nel mondo" - N° 2 - 2003
Ben ritrovati agli amici che hanno già visto le mie proiezioni e benvenuto a chi vi assiste per la prima volta. Ringrazio Lotti Brull per la presentazione e aggiungo due sole note di introduzione.
Perché stasera vi proponiamo un viaggio di 20 anni fa? Forse perché questo primo contatto con l’Africa ci ha così profondamente colpito da rimanere il ”più bel viaggio”, una esperienza che esitiamo a ripercorrere per paura che, passati così tanti anni, le emozioni di allora si dimostrino irripetibili. Abbiamo proiettato questo documentario solo due volte in vent’anni. Stasera lo presentiamo con piacere, anche se dobbiamo confessare che in Mali ci siamo finiti per caso. L’amico Gino Bernardi aveva preparato un viaggio in Camerun, ma noi avevamo dimenticato un passaggio fondamentale: spedire a Roma la scheda di iscrizione!
E così finimmo in Malì, attratti da un articolo di “Airone”: da allora non abbiamo più comprato questa rivista. L’articolo presentava il Malì ed i Dogon. Immagini e testo erano entusiasmanti, ma alla fine si proponeva il viaggio come possibile solo se effettuato tramite a agenzie ad alto budget. Da allora non ho mai sopportato la “spocchia”, la superbia, di chi non ammette che con budget più semplici ognuno di noi può conoscere un paese e anche acquisire una conoscenza meno superficiale e non “scatta e fuggi”. Non siamo fotografi e le immagini sono quel che sono, vecchie, con i colori ormai virati e la polvere che è scesa come è scesa imbiancando i miei pochi capelli.
(buio in sala, scorrono i titoli e le prime immagini)
Per me e Wanda erano anche i primi viaggi nell’universo degli aeroporti. Il Charles De Gaulle a Parigi sembrava un luna park spaziale, con ampi spazi, strutture avveniristiche, lunghissimi tappeti mobili. Era la scoperta degli orrendi sapori dei vassoi con il pranzo a bordo (l’anno dopo su un volo Lufthansa ho assaggiato il primo kiwi, non sapevo come fare e l’ho mangiato con la buccia).
Africa, Africa nera, l’odore della terra che all’equatore assume un colore rossastro. Le diapo raccontano paesaggi e incontri, le parole comunicano emozioni, ma qui non posso farvi percepire i profumi, gli aromi, che contraddistinguono questo come ogni altro paese del mondo.
Bamma Ko, il fiume del coccodrillo, era uno sperduto villaggio sulle rive del Niger fino a cento anni fa. I francesi vi costruirono un fortino. Oggi è la capitale del Mali, uno degli Stati tranciati sulla carta al momento dell'indipendenza dell'Africa Occidentale francese. Siamo a poche ore di volo aereo dall'Italia, ma per noi l'Africa è un mondo nuovo, diverso e lontano.
Mentre con il gruppo ci aggiriamo per Bamako, il nostro capo, Aldo Sestrieri, professore universitario a Roma, si sbatte veramente per trovare un mezzo che ci porti verso nord. Chi stasera vuol conoscere come Avventure viaggia in Mali, non si basi sul nostro racconto. Oggi in Mali AnM ha due contatti, il gruppo arriva e tutto è pronto. Ma allora ci si organizzava sul posto. Aldo noleggia una bachette, una Pegeaut 505 tipo pick-up telonato che ci trasporta in 16 verso un aeroporto più a nord. Sul volo Bamako-Timbuctu non ci sono posti, si libereranno solo al primo scalo. E così viaggiamo negli odori della notte africana, cercando di precedere l’aereo. Arriviamo che è ancora buio, ci sdraiamo con i materassini sulle porte, così saremo i primi ad entrare. E facciamo bene, perché quando l’aereo atterra il capitano blocca tutto e ordina di pesare passeggero e bagaglio. Ha una scorta limitata di carburante e non può imbarcare più di un certo peso. A me va bene, sono l’ultimo ad esser accettato.
Sorvoliamo il fiume Niger. Sotto di noi si allarga il delta interno: un dedalo di lagune, paludi, laghi, villaggi ed isole steppose. L'occhio spazia sulla distesa di canali, larga fino a 200 chilometri e lunga più di 300, che coprono una minima parte di questo paese grande quattro volte l'Italia.
Il nostro itinerario parte da Timbuctù, mitica regina delle sabbie, ma il mito della città proibita vive solo per noi. Chi di voi è stato a Zagorà, in fondo alla valle del Draa in Marocco, avrà sicuramente scattato la foto ricordo con il cartello: “Timbuctù, 42 giorni di cammello”. Oggi pochi sono i resti degli splendori passati. Fondata dai Touareg, è stata conquistata dai grandi imperi dei Mandingo, dei Peul, dei Mussulmani ed infine dai francesi. Si racconta che i suoi abitanti possedessero oltre centomila cammelli. Oggi è fuori dai traffici commerciali. Solo l'Azalai, la carovana del sale, giunge puntuale dal lontano deserto del Toudenì, attraversando 700 chilometri di sabbia e rocce con un carico di salgemma da imbarcare nel vicino porto fluviale di Kabara. Ma di questo parleranno nell’ultima serata, Giosuè Bolis e Miriam Butti che hanno pubblicato «Azalai, il tempo delle carovane». Nella stessa collana trovate il volume sul Ladakh che potete acquistare al termine di questo incontro.
Siamo alloggiati in un vecchio edificio, un collegio islamico, tutto in pietra, a differenza di altre case. L’acqua è poca, ci si lava di corsa a gruppi di tre sotto l’unica doccia. Case senza finestre racchiudono freschi cortili, la moschea è un castello di sabbia, il minareto e le merlature a cono sono caratteristici dello stile sudanese. Il muezzin ci accompagna fra gli enormi pilastri di fango secco che sostengono le navate interne. Si lamenta dei danni causati dall'ultima pioggia di dieci anni fa (1971). Le tre grandi moschee, una delle quali aveva le dimensioni della Kaaba a La Mecca, e le madrese, università e biblioteche rinomate in tutto l'Islam, erano già decadute come centri culturali letterari e scientifici quando il maggiore Laing le visitò nel 1826, primo europeo a raggiungere la porta sud del Sahara dopo aver attraversato il «nulla» del deserto. Al mercato incontriamo Songai, Touareg, Mauri e gente del fiume. Ben lontano è il tempo quando questa città era capitale e luogo di incontro delle carovane giunte da migliaia di chilometri con oro, tabacco, datteri algerini, avorio ed altre mercanzie come salgemma o tappeti da scambiare con gli schiavi del golfo. Ibn Batuta, il geografo maghrebbino, racconta l’arrivo al Cairo della maestosa e ricca carovana diretta da Timbuctù a la Mecca. Tutto scompare diventa sabbia che il vento ci porta negli occhi. Ed ora ecco tutta la sapienza rappresentata da questo scrivano pubblico, ma non dimentichiamoci che anche in Italia l’analfabetismo è stato sconfitto negli anni sessanta dalle trasmissioni di Alberto Manzi: chi ha la mia età ricorderà “Non è mai troppo tardi”.
Dei centomila abitanti ne restano qualche migliaio sparsi fra la città e gli accampamenti della zona, ma obiettivo del nostro viaggio non è il deserto che si estende a nord verso Marocco ed Algeria, bensì il popolo sudanese. È un termine molto ampio che indica le popolazioni stanziate a sud del Sahara, e che comprende i pescatori e gli allevatori che si sono insediati lungo il grande Niger.
Ancora una volta Aldo fa del suo meglio: ingaggia il capitano di una pinasse che trasporta un carico di lastre di sale appena giunte a dorso di cammello da Toudenì (lo pronuncio alla francese perché fa molto chik, come Tibét anziché Tibet). L’accordo prevede che risaliremo il fiume in quattro giorni e che ogni giorno egli attraccherà due volte ad un villaggio. Una scelta, quella di Aldo, che si rivela formidabile: toccheremo insediamenti sperduti dove i turisti mai sostano. La pinassa è un barcone lungo e sottile. Lunga venti metri e larga tre, con una copertura di canne e di tela, ha due motori. La coabitazione è felice. Noi sul carico, a poppa uno spazio vuoto dove su pietre viene acceso un fuoco e la moglie del capitano cucina pentoloni di riso. Il capitano sta a prua e con due cavi controlla il timone, così può avvistare in tempo le reti. Un motorista cura la velocità dei primordiali motori intrabordo.
Il ritmo della vita sul fiume è lento, un ritmo continuo come la fatica delle donne intente dalle prime ore del sole a battere il miglio nei mortai. Si, avete capito bene, il miglio, quello che per noi è un cibo per canarini, è l’alimento che queste donne possono offrire ai loro figli!
La decolonizzazione non ha portato molti cambiamenti nella condizione della donna africana. In Mali la donna è considerata uno strumento di lavoro e la poligamia rappresenta ancora la regola, sebbene trovi in fondo un limite nelle risorse finanziarie dello sposo. La monogamia diventa allora virtù di massa. Se una volta il matrimonio avveniva con lo scambio di due fanciulli fra famiglie che divenivano alleate, oggigiorno si usa il sistema della dote che consiste in una somma di denaro o in beni che il marito versa ai parenti della sposa. Essendo ammesso il divorzio, la dote torna al marito al quale sono assegnati anche eventuali figli. Ma non dimentichiamoci che tutto il mondo si basa sul lavoro femminile. Il 64 per cento della produzione mondiale viene sostenuta dalle donne che sono poco più dei sei miliardi di umani su questo pianeta.
La nostra barca scivola fra le sponde del Niger. Attorno a noi la siccità mostra i suoi effetti, ma è temperata dalla presenza del fiume che trova alimento nella foresta pluviale. Il Niger è stato uno dei più grandi misteri geografici e sono occorsi anni per comprendere quale fosse esattamente il suo percorso che sviluppandosi per oltre 4000 chilometri, ha tratto in inganno gli esploratori poiché in Mali scorre verso Nord per poi scendere a meridione in Niger dopo l'ampia curva del Delta interno e centinaia di chilometri nelle zone deserte attorno a Gao.
La vita a bordo è piacevole. Non è uno yacht. Non ci sono gabinetti, né privacy. Una lunga asse sporge da entrambi i lati della barca, uomini a destra, donne a sinistra: non c’è bisogno di attendere una sosta per espletare le proprie necessità. La cucina è un po’ monotona. Aldo ha fatto portare un po’ di spaghetti, ma a Timbuctù non abbiam trovato granché per integrare la cassa viveri e nei primi anni Avventure non la preparava. Il riso trovato al mercato ha un sapore nuovo, diverso, ed alla fine della cottura è abbastanza colloso. È un chicco un po’ troppo spezzettato, da noi non sarebbe neppure in commercio, qui è un lusso! Le soste tagliano la placida monotonia del paesaggio. Se siamo vicini ad un centro importante cerchiamo di fare acquisti.. Troviamo dei polli confezionati interi in una scatola: nauseabondi. Ed è proprio in uno di questi mercati che provo la sensazione di essere solo, circondato da centinaia di volti neri. E pensare che quando ero venuto a lavorare a Brescia, nel 1973, in città vivevano solo una decina di Africani, per lo più studenti dell’Istituto Agrario, un paio a medicina, il più famoso era Idriz, di giorno insegnante e di notte disk-jockey. Improvvisamente mi sono trovato in questo mercatino, unico bianco in una mare nero, mi sono sentito smarrito e mi sono chiesto cosa provassero loro quando venivano a scuola da noi.
Scivolando fra le basse sponde prive di argini, ogni sera approdiamo in villaggi posti fuori dalla rotta del battello di linea. Di tanto in tanto ecco un gruppo di alberi, una piccola moschea dal profilo inconfondibile con le merlature coniche ed approdiamo fra misere capanne e casette. Chi ha la tenda scende a terra a sera per accamparsi, gli altri si stendono cercando ci conformare la schiena alle lastre di sale su cui viaggiamo.
La rustica abitazione dei Bambara e dei Bozo, costruita in mattoni seccati al sole, ha una pianta quadrangolare ed è coperta da un terrazzo munito di parapetto. Vicino alla riva si trovano capanne di paglia intrecciata con l'armatura in legno, abitazioni dei pescatori più poveri. Oltre alla moschea, gli elementi che caratterizzano un villaggio sudanese sono i granai di miglio. Costruiti presso i recinti famigliari, o in gruppi lungo la palizzata del villaggio o sparpagliati fra i campi, hanno forma quadrata, sono sollevati dal suolo e hanno il tetto conico. Pur non avendo sbocco sul mare, grazie al fiume Niger il Mali riesce a garantire un’attività di pesca a più di centomila persone. La siccità ha trasformato gran parte dei canali del Delta interno in paludi di fango, danneggiando anche l'allevamento del bestiame che si dice sia arrivato fin qui con una grande migrazione di popoli dall'Egitto.
Eppure pensate ormai a questo nostro mondo così globalizzato. Il fiume Niger trasporta dalle zone abitate una infinità di liquami, pieni di tutti quei prodotti chimici che Europa ed US hanno vietato e che produciamo per smerciarli qui. Quando il fiume si secca, veleni e polvere si depositano su queste piane. Il vento arriva, la polvere si alza e viene trasportata fin sui Carabi, dove si deposita. Questa è una delle recenti teorie sull’imbiancamento e la morte dei coralli. La polvere velenosa arriva anche in Florida. In questo mondo tutto è compenetrato.
Ogni giorno la vita diventa sempre più dura per gran parte degli undici milioni di abitanti (nell’81 erano sette milioni), soprattutto per chi vive nella “brousse” cioè nella boscaglia. Bambini e adulti sono falcidiati da malattie intestinali e dalla carestia. In alcuni villaggi i bimbi piccoli strillano di paura. Non hanno mai visto un bianco, e certamente i medici del nostro gruppo devono sembrare loro delle creature mostruose. Per molti Africani, l’uomo bianco è un essere maledetto perché gli dei non gli hanno concesso la pelle, che ovviante come tutti sanno è nera
Con dignità, le madri chiedono medicine e soprattutto quella che sembra risolvere ogni male: l'aspirina. Fra questi sperduti villaggi i medici delle missioni Onu non possono giungere e l'assistenza medica non esiste. Ben poco è l'aiuto che si riesce a dare, una goccia nel deserto, forse la ragazza cui abbiamo curato la ferita infettata non perderà il braccio, ma la nostra inadeguatezza non è che lo specchio degli sforzi spesso inutili e maldiretti della comunità internazionale che è presente in Mali sotto varie forme. La speranza di vita, non la media, qui come in gran parte del mondo, è di 35 anni. Sarò fortunato se vivrò 35 anni! Gran parte dei bambini che vi sorridono dallo schermo sono già morti.
Spesso sentiamo la frase “aiutiamoli a casa loro”. Ebbene, il governo francese aveva proposto una serie di aiuti al Mali in cambio di un blocco della emigrazione verso la Francia. L’ammontare degli aiuti, per quanto consistente, era piccolissimo rispetto alle rimesse degli emigrati che lavorano in Francia…
A1 termine della navigazione sul Niger sbarchiamo a Mopti. La moschea costruita con la terra rossa, gli ampi cappelli in paglia, le guglie slanciate del minareto, l'animazione del mercato, stordiscono chi si è abituato al lento e pigro procedere della barca. Il profilo architettonico degli edifici appare esotico ed irreale. L'Africa è una sorpresa continua. Ma la vita del Mali non è solo lungo il fiume. Per questo, recuperata fortunosamente la benzina acquistandola presso la caserma di polizia, affittiamo un furgone e raggiungiamo Sangha, punto di partenza per una lunga camminata fra un popolo poco conosciuto: i Dogon della «falaise» di Bandiagara.
«All'inizio dei tempi le donne Dogon staccavano le stelle dal cielo per darle ai loro bambini. Essi le bucavano con un fuso e facevano girare queste trottole di fuoco per mostrarsi fra loro come funzionava il mondo». Cosi raccontava un Ogon, un vecchio capo, a Marcel Griaule, antropologo che per primo si è spinto fra questo popolo enigmatico. Ed è allo spuntare delle prime stelle che giungiamo a Banana, dopo due ore di marcia sull'altopiano. Una pericolosa discesa in una stretta forra che fende la muraglia ed eccoci ai piedi della «falaise» di Bandiagara, enorme parete di arenaria, lunga più di duecento chilometri, che attraversa il territorio Dogon.
L'immensa pianura del Séno, divisa fra Mali e Niger, si estende a perdita d'occhio quando all'alba il brusio del villaggio, adagiato su groppe rocciose, ci invoglia ad inoltrarci fra le case.
Il gigantesco scenario di pietra gialla incombe sulle case di fango e gli speroni rocciosi sembrano precipitare su le capanne, l'attenzione è subito attratta dalle numerose e strette grotte che punteggiano la parete, alcune chiuse da muretti di fango. Sono le case dei mitici Tellem, «piccoli uomini rossi» forse pigmei, scacciati, circa settecento anni fa, dall'arrivo del Dogon, che ora vi depositano i loro morti, issando il feretro lungo le cenge con robuste corde di fibre.
Popolo misterioso ed inavvicinabile, considerati stregoni ed antropofagi, i Dogon sono rimasti animisti, rispettando l'Islam e combattendolo, come ricordano i numerosi feticci fallici incontrati nella «brousse», la boscaglia di arbusti che attraversiamo per giorni costeggiando la falaise da un villaggio all’altro. Ma come osservava recentemente Umberto Eco in una “bustina” sull’Espresso, un Dogon che risponde “io sono animista” è un dogon istruito che conosce categorie di sociologia religiosa, sconosciute al suo popolo. Ed io aggiungo è il contentino per il turista che ascolta proprio quello che vuole sentirsi dire…
Ogni aspetto delle vita sociale, domestica ed economica di questo popolo, da sempre unito ai miti della loro complessa cosmogonia: la parola, ogni parola, ha un significato diverso che muta in differenti contesti, il suono diventa presenza fisica dell'entità nominata. Ma non solamente i nomi ed i numeri hanno importanza nella concezione del mondo sviluppata dei Dogon. Ogni oggetto si trasforma da strumento in rappresentazione concrete di concetti astratti; le falangi delle mano non sono solo numeri ma disegnano i rapporti di parentela, un cesto rovesciato rappresenta, con la sua piramide conica tronca, la forma del mondo. La stessa distribuzione spaziale delle case rotonde a questa. simbologia per noi difficile e talvolta incomprensibile.
I vari quartieri di un villaggio rispecchiano l'organizzazione in famiglie ed i clan totemici, ma ad uno studio più attento ci si accorge che anche la topografia del villaggio ha una sue caratteristica dovendo richiamare concettualmente l'immagine di un uomo supino per terra. La case del consiglio, rappresenta la testa ed e a Nord sulla piazza principale, Est ed Ovest le case per le donne mestruate, rotonde come l'utero, rappresentano le mani, a Sud gli altari comuni sono i piedi e le grandi case di famiglia segnano il petto ed d ventre. Ogni quartiere deve rispecchiare questo stesso simbolismo ed ecco altre piazze principali ed altre «toguna».
La «toguna», o «grande riparo», è l'edificio del consiglio degli anziani; il «luogo della parola» è una spessa tettoia di arbusti elevate su base quadrangolare, con pilastri di legno o pietre e adorni di figure stilizzate. I corridoi interni devono essere bassi, nessuno s'alzerà di scatto in preda all'ira; devono essere scomodi per giungere presto a rapide decisioni of dice un vecchio capo, l'unico in questo villaggio di Mali che conosca un po' di francese, che consultiamo senza dover ricorrere alla guida assegnateci dalla polizia per attraversare la zona. Avvolto in un cappotto militare russo se ne sta accanto alla togunà leggendo il libretto rosso di Mao.
Il nostro giovane interprete, convertito all'Islam, irride a noi ed al nostro colloquio «Tutte frottole per gli studiosi» è il laconico commento. Suo compito e sue preoccupazione maggiore è guidarci lungo i sentieri consentiti agli stranieri e prevenire ogni nostra inavvertita offesa ai costumi del nostri ospiti. Vietate le fotografie delle persone, pena il sacrificio di un montone; pericoloso toccare le pietre sparse nei campi perché potrebbero essere feticci «tabù». Vietato avvicinarsi alle tombe: troppi «antropologi» le hanno saccheggiate con furtive incursioni notturne.
I villaggi che attraversiamo si ripetono per struttura, le viuzze strette fra le case quadrate di fango, spesso diroccate dal tempo, qua e là si ergono le torri cilindriche a due piani dove vengono educati assieme i ragazzini di entrambi i sessi. Stupisce la libertà delle donne Dogon, a confronto con le vicine donne mussulmane. Libero il corteggiamento, ammesso il rapporto prematrimoniale, concesso un periodo di prove in cui i coniugi vivono nelle case d'origine. Il matrimonio diventa obbligatorio solo dopo la nascita del secondo figlio.
Ma se l'antropologo impazzisce dalla gioia nello studiare i costumi di questo popolo, ben più immediato è l'entusiasmo suscitato dal partecipare ai momenti collettivi quali i funerali o le danze. Quando la »società delle maschere» si esibisce la vita del villaggio si concentra su questo momento di ritmo e di colore. Un posto di grandissimo rilievo è tenuto, nella simbologia dei Dogon, delle maschere, che contano una ricchissima varietà di tipi. In genere sono rappresentazioni di animali: la lepre, l'antilope, oppure raffigurano i personaggi tradizionali della stessa società Dogon: il capo religioso, le ragazze dei villaggi, il vecchio, oppure mostrano le fattezze delle bellissime donne Peul o Bozo, i vicini di sicura origine etnica differente, essendo i Dogon del Niger sono famosi per la loro bellezza ed i giovani Peul si vantano dei loro lineamenti androgini.
Vi consiglio di leggere “Diario Dogon” pubblicato in EDT, dall’antropologo Marco Aìme, con il quale ho avuto il piacere di compiere il mio primo viaggio in Pakistan nel 1983 fra le popolazioni Kalash e Hunza. Scoprirete che ormai la danze avvengono solo per i turisti… Ebbene, nel 1982 fummo fortunati perché ci imbattemmo in un funerale, non posso mostravi la foto perché sovresposta e tecnicamente indecente, ma da una cengia vedemmo scendere la corda che avrebbe permesso di sollevare il corpo del defunto fino alla grotta dove avrebbe riposato. C’era molta animazione, colpi di fucile sparati in aria; rimanemmo a guardare da lontano.
Fra le maschere che più attraggono l'interesse vi è quella che rappresenta la casa più bella del villaggio (anche avendo vari significati) ; è un'asse traforata con i colori classici rosso, bianco e nero, alta fino a cinque metri. Infine la maschera «kanaga», con la croce di Mali, le braccia volte al cielo ed alla terra per unificarle cui al centro del mondo. Le maschere policrome sono completate da un costume a frange, tinte di rosso, e da monili di conchiglie e vimini intrecciati. Ognuna richiede un diverso passo di danza, quello della maschera kanaga è particolarmente ritmico e selvaggio, ergendosi ora verso il cielo, ora strusciando nella sabbia.
Ho rivisto qui a Brescia la danza in un teatro, sicuramente affascinante, ma “non era la stessa cosa”: Lo spettacolo era organizzato da alcuni psichiatri junghiani. Un giorno andammo a pranzo, c’era anche la proprietaria africana della agenzia che organizzava la loro permanenza. Mi sono chiesto cosa esattamente fosse stato mostrato a noi, sicuramente con una organizzazione naive e cosa venisse propinato oggi a chi scende a visitare la falaise… OK, lasciamo da parte queste considerazioni.
Le maschere sono usate dei membri delle numerose «società» di quartiere in occasione di feste, funerali, riti propiziatori o dietro congruo compenso da parte del visitatori. Sono gli stessi danzatori a scolpirle usando un legno tenero e leggero. Sono quindi fragili e spesso riparate o ridipinte ed alla fine gettate nelle caverne dei Tellem o vendute ai mercanti d'arte che le contrabbandano in Europa dove le maschere raggiungono quotazioni molto alte. E si racconta di famosi alpinisti francesi che hanno girato documentari sulle loro arrampicate in falaise e poi di notte scendevano a saccheggiare le tombe…
Nell'afa del meriggio l'Ogon non accenna ad interrompere il suo racconto mentre, attorno a noi, sulla piazzetta della toguna i vecchi del villaggio sfilacciano la corteccia di un baobab, si inumidiscono sulle labbra e la attorcigliano costruendo robuste corde. Giunge alla fine la domanda che ogni viaggiatore pone quasi a liberarsi dal senso di colpa: «Che ne sarà del tuo popolo?» « Il primo Monno ha creato l'ordine dell'universo - risponde l'Ogon fissandoci negli occhi ad uno ad uno - anche i Dogon scompariranno poiché questo è stabilito».
Il trekking finisce qui. Le bachette non sono all’appuntamento, ma a tutto c’è rimedio,. I francesi avevano favorito lo sviluppo della coltivazione delle cipolle ed è su un camion carico di cipolle che torniamo a Bandiagara, poi a Mopti dove gli autisti trovano benzina andando fino al confine con l’Alto Volta. E poi via, passando dal fascino di Djenet, con la sua immensa cattedrale di sabbia. Si conclude il nostro viaggio e termina anche la proiezione.