«...se non succede niente, se nessuno si fa male, giuro che non organizzo più un viaggio in Karakorum. L'anno prossimo vado al mare!»
Promesse da marinaio mentre le pietre piovono attorno a me. Minuscole là in alto, alla sommità del cono di deiezione, si ingrossano a vista d'occhio. Poi si impiantano con fracasso nelle acque del fiume e fanno scaturire fasci di schiuma che mi infangano...
Sulla strada per Shimshal, il villaggio più lontano della zona, un tempo luogo di deportazione... saliamo discendiamo, rimontiamo e ridiscendiamo senza tregua, insetti minuscoli arroccati ai fianchi d'immense muraglie selvagge, aggirando i coni di deiezione che, come delle gole spalancate, vomitano le loro pietre in blocchi sui precipizi spaventosi provocando delle nubi di polvere fine. Ciascun sdrucciolamento provoca un piccolo scoscendimento del terreno...
Non posso guardarmi intorno, con attenzione devo controllare i miei passi ad uno ad uno e mi sovviene l'avventura di Shipton che primo vi giunse dopo una lunga esplorazione del Karakorum...
Anche questo tratto pericoloso è terminato. Posso rilassarmi chiacchierando con il capo delle guide che, premuroso, ha già controllato che tutti i partecipanti ed i portatori siano giunti in un punto sicuro.
Ma se è così pericoloso - mi chiederete - cosa ci sei andato a fare?»
Allora andiamo con ordine e stendiamo una bella relazione...
E' leggendo i diari di Shipton e gli articoli dei Michaud, che ho programmato un viaggio nell'«Hunza Gojal» (alto Hunza), la regione più a settentrione del Pakistan aperta ad alpinisti ed escursionisti. Il gruppo, 15 persone abituate alla media montagna, (l'importante è camminare e non avere vertigini), si è formato rapidamente: alcuni viaggiavano per la prima volta con «Avventure nel Mondo», altri erano veterani di trekking, ma tutti eravamo entusiasti e «caricati» per la nuova avventura (ovviamente tutti iscritti CAI di varie sezioni). Danilo, Simona e Claudio, Bianca, Maria Grazia e Katia, Gianni e Gianni, Massimo, Antonio, Walter e Walter, si rivelano subito compagni deliziosi e ben presto ci trasformiamo in una affiatata combriccola di canterini.
Organizzazione spartana: guida e capo portatori, 10 chili a testa da affidare ai portatori, cucina da campo gestita dagli stessi partecipanti. Senza grossi problemi abbiamo percorso in tre giorni le cinque tappe tradizionali dei gruppi «di lusso» (i locali impiegano due giorni...). La guida è il sindaco di Shimshal, mi ha trovato lui e si è offerto di accompagnarci assieme ad alcuni abitanti dell'oasi che sono scesi a Passu.
Le aspettative erano grandi e siamo stati ricompensati. Il fascino di questa camminata nasce dall'isolamento della valle e dalla sua configurazione. Nei primi 35 chilometri si cammina in una profonda e stretta gola. Il sentiero è quasi sempre artificiale, ogni tanto è scavato nella roccia ricavandovi cenge e passaggi, oppure è sospeso nel vuoto secondo un sistema usato nella zona del Karakorum. Malauguratamente ogni primavera questo collegamento precario è interrotto dalle intemperie. La tecnica utilizzata per tracciare un sentiero sul fianco di una scogliera è delle più ardue. Chiamata «galing» in burushaski (lingua del basso Hunza), consiste nel conficcare delle travi di legno nelle anfrattuosità della roccia, perpendicolarmente a queste, nell'accatastare poi su questo strato falde sovrapposte di pietre piatte determinando progressivamente una sporgenza. Una volta raggiunto il traguardo voluto ne risulta un sentiero su cornicione praticamente sospeso nel vuoto. Il sentiero procede nella gola chiusa da pareti a picco ed è spesso interrotto da frane e da ghiaioni che richiedono cautela ed assenza di vertigini.
Dal villaggio di Passu non si scorge l'ingresso della valle di Shimshal, individuabile solo dalla Karakorum Highway. Una strada bianca con un ponte valica il fiume Hunza e si inoltra poi nella gola. La strada è finanziata dall'AKRSP, una associazione dell'Aga Khan Karim (ecco dove finiscono i soldi della Costa Smeralda...), e dal contributo degli stessi abitanti che volontariamente lavorano come sterratori e muratori. Il suo avanzare è lentissimo per le difficoltà enormi dovute allo sbancamento della parete rocciosa. Il primo campo lo facciamo presso il cantiere. Letti, casse lucchettate, fornelle, marmitte, compressori, carriole giacciono accatastati lungo le pareti di una grotta. Al mattino successivo entriamo nel tratto più suggestivo delle gole. Nel tratto iniziale l'azione erosiva di acqua e vento ha modellato marmitte di giganti e lisciato le pareti, la gola si restringe notevolmente ed in un paio di punti il sentiero è quasi interrotto da enormi macigni.
In saliscendi incontriamo un ghiaione. Percorrerlo in costa (come sui ghiaioni incontrati nei giorni seguenti) richiede piede fermo, poi ci abbassiamo sul fiume. Su cengette seguiamo la sponda scendendo ogni tanto su spiaggette dove ci bagnamo per bene le scarpe. Attraversiamo il fiume su un ponte costituito da lastre di ardesia sospese su cavi d'acciaio. Momenti tragici per chi oscilla fra i cavi, comico per chi assiste al sicuro sull'altra sponda. Giungiamo al tratto più aereo e selvaggio del percorso. Il sentiero si snoda su cenge artificali, l'abisso si spalanca sotto i piedi mentre la parete opposta si erge per centinaia di metri mostrando scivoli di pietrisco, strati di arenaria, roccia e sabbie. Ogni sperone sembra esser l'ultimo, lo aggiriamo e... di nuovo il sentiero è sospeso nel vuoto. E quando la cengia artificiale finisce ecco un'interminabile serie di ghiaioni. In alcuni punti il sentiero è continuamente cancellato dallo scivolare a valle della ghiaia ma le tracce del passaggio dei portatori ci permettono di proseguire senza troppe difficoltà.
Lo spettacolo è entusiasmante, la paura notevole, l'esperienza impagabile. Quando ormai siamo abituati a camminare sul precario inizia una lenta discesa verso il letto del fiume. Ma non è finita: un largo sperone roccioso impedisce di proseguire su questo lato del fiume. E qui viviamo altri momenti di trepidazione: per aggirare lo sperone gli abitanti di Shimshal hanno teso due cavi d'acciaio a monte ed a valle e su essi i portatori improvvisano una teleferica. Assicurati con moschettoni e cordino e ci infiliamo a turno nella cassa di legno che serve da «cabina».
Ci attende ora la terza tappa fra le sassaie che costeggiano il fiume, guadando un paio di torrentelli laterali. File di ciotoli marcano il percorso. La morena del ghiacciaio di Malangutti sbarra quindi il percorso. Dall'alto si sovrasta il ghiacciaio sul quale scendiamo per attraversarlo. Le difficoltà sono date da sbarramenti paralleli di ghiaccio vivo che occorre scavalcare. La colata di ghiaccio non è larga più di mezzo chilometro ma i continui cambi di direzione per aggirare l'ostacolo moltiplicano il tragitto che serpeggia sul ghiacciaio per un paio di chilometri. La traversata del grande ghiacciaio, che i portatori affrontano in scarpe da ginnastica, si trasforma in una gita di piacere.
Le nostre stesse guide hanno difficoltà a trovare una via d'accesso facile. Noi finiremo per fermarci sull'immensa superficie gelata, sotto un cielo blu profondo (siamo a 3800 metri), il sole riscalda le nostre membra indolenzite, trasforma il ghiacciaio in uno specchio abbagliante ed in una pista di pattinaggio. Per due ore scivoliamo, inciampiamo, cadiamo, non senza riuscire a trattenere gli scoppi di risa, tanto la nostra goffagine diverte i portatori. Dopo una dura ascensione, sudando e soffiando, arriviamo al bordo della grande colata di ghiaccio, lavorata da spigoli e solcata da crepacci.
Dalla cresta morenica, poiché il tempo è sereno, la vista spazia verso le montagne che dominano la testata del ghiacciaio. La più alta è il Dhistaghil Sar (m. 7885) ma presto ci rimettiamo in marcia verso l'oasi di Shimshal che già si scorge in lontananza. Infine la pianura si stende davanti a noi, tappeto d'ocra e nero. Al di sopra delle pareti che dominano il fiume, sul bordo di una vallata che sale in dolce pendio fino ad altre pareti scoscese, il villaggio di Shimshal è là, come una ricompensa. Dopo l'ostilità dell'universo roccioso, che abbiamo appena traversato gli alberi sembrano sorridere e le erbe cantare.
Alcuni uomini che lavorano al rifacimento dei canali d'irrigazione, abbandonano i loro badili e discendono, come capre le pareti del dirupo... Aziz, nostra guida, portatore d'alta quota e sindaco di Shimshal, ferma tutto il gruppo, escursionisti e portatori, nella prima casa. Si comincia con una lunga sfilata di uomini che, dopo averci salutati, si sdraiano per terra lungo il muro. Ci è servito immediatamente il thé al latte salato. Per quelli che lo vogliono salare ulteriormente ecco un grosso pezzo di sale grezzo da sciogliere per qualche secondo nel thé caldo, prima di passarlo al proprio vicino.
La sosta a Shimshal permette di conoscere meglio l'alto Hunza. Questo territorio in capo al mondo, che si prolunga fino alla frontiera cinese ed afgana, è pricipalmente abitato da 5 o 6 mila Gojali, chiamati Wakkhi (parlano la lingua Wakhi). Costituiscono uno dei tre gruppi geografici e linguistici nei quali si dividono gli Hunzakut, abitanti della valle del fiume Hunza, musulmani della setta ismailita. I Gojali, presso cui noi ci troviamo, sono considerati tra i più ospitali e generosi fra i tre gruppi della popolazione...
Ciascuna delle 80 famiglie del villaggio possiede il suo pezzo di terra. Allevano delle mandrie di capre e di montoni, curano i loro yak, mucche, buoi, filano la loro lana, tessono i loro vestiti, cuciono le loro scarpe. Per di più, ciascuno è mugnaio, fornaio, macellaio ed ancora carpentiere e muratore. Solo gli utensili e gli aratri sono fabbricati dai fabbri ambulanti, i Bérichos che vengono da Baltit.
Verso la metà di maggio la maggior parte delle famiglie del villaggio emigrano verso gli alti pascoli del Pamir, a qualche centinaio di chilometri ad est di Shimshal. Là in alto si stabiliscono fino a metà di ottobre negli accampamenti estivi per far usufruire il bestiame dell'erba grassa, prima di ridiscendere nella valle per trascorrere l'inverno. Sugli ottocento abitanti, la metà, soprattutto le donne e i bambini, lasciano i luoghi; gli altri restano sul posto per coltivare la terra...
Dopo la stupenda camminata in Shimshal, durata otto giorni, abbiamo risalito parte del ghiacciaio Batura, posto in una vicina valle dell'Hunza Gojal.
Batura è un nome in burushaski che unisce «bat» e «tur», (pelle e corna). I pastori locali rinvenivano numerose carcasse di ibex, uccisi dai leopardi delle nevi o dalle valanghe. Oggigiorno il termine indica tutta la catena, da alcuni geografi considerata Hindu Kush e da altri Karakoram. Il ghiacciaio che ne lambisce le pendici settentrionali è chiamato ghiacciaio Batura e Batura Pamir gli alpeggi della vallata (ovviamente altri pascoli detti Batura Pamir sono ai piedi di tutti i versanti nelle numerose valli che scendono dalla catena dei Batura). Il ghiacciaio è lungo ben 54 chilometri, la bocca è ad un'ora di cammino dalla KKH e sono stati sufficenti due giorni di marcia per raggiungere i pascoli di Yash Pert ed ammirare ghiacciaio e picchi in tutta la loro maestosità, al terzo giorno saliamo al dosso panoramico sopra le malghe di Gushem che sovrasta la confluenza fra due lingue del ghiacciaio. Un panorama grandioso: vette di oltre 7000 metri ci fronteggiano ed un ghiacciaio himalayano, striato longitudinalment, si snoda sotto di noi!
La camminata si è rivelata facile, alla portata anche dell'escursionista meno esperto. Oltre alla catena dei Batura motivo di interesse è stato ancora l'incontro con donne e bambini wakkhi del villaggio di Passu che, nei mesi estivi, vivono quassù assieme a greggi di pecore e di yak. L'attività dell'alpeggio non è un'occupazione maschile, essendo gli uomini prevalentemente impegnati come portatori in spedizioni e trekking. I bambini portano al pascolo gli animali mentre le donne si dedicano alla lavorazione del latte con il quale producono burro, yogurt e cagliate. I portatori spesso si fermano a riposare nelle malghe dei parenti ed il turista è invitato, con squisita ospitalità wakkhi ad entrare nelle capanne dalle stesse padrone di casa, fatto inconsueto in un paese islamico. Trascorriamo indimenticabili serate stretti davanti ai camini delle baite od in cerchio attorno al fuoco. Frizzi, danze e canzoni wakkhi, italiane, afghane. Cieli stellati e tracce di stelle cadenti... fiamme che illuminano i volti dei portatori ed i nostri...
Il viaggio è finito. Dopo due mesi di scorribande sulla «via della seta» (ma questa è un'altra storia), l'amico Agostino ed io, non siamo ancora stanchi, materiale per il prossimo libro ne abbiamo raccolto tanto, elaborarlo riempirà i giorni invernali, rubando tempo allo sci-alpinismo, ma tornare a casa... forse questo è l'ultimo desiderio che abbiamo.
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