India - Camminate ai piedi dell'Himàlaya

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HINDUISMO

una religione per la Grande Madre

Fra il 13° e l'8° secolo a.C. gli Arii imposero a poco a poco una nuova struttura culturale alle popolazioni che essi avevano soggiogato. Questo avvenne anche grazie alla diffusione di una massa di testi letterari, scritti in sanscrito, disegnata sotto il nome di Veda. Ritenuti per tradizione di origine divina essi comprendono testi in prosa ed altri in versi. I primi hanno un valore prettamente sacro, per il motivo che in genere accompagnano i gesti rituali e costituiscono la parte propriamente liturgica degli atti religiosi. Fin dall'epoca vedica la parola vale per i suoni emessi correttamente ed il gesto rituale per l'esecuzione impeccabile, mentre il commento teologico li completa e li giustifica.

Per maggior chiarezza, gli studiosi occidentali hanno distinto tre periodi nell'evoluzione religiosa di questi testi: il più antico l'hanno chiamato Vedismo, il successivo Brahmanesimo ed il terzo, l'attuale, Hinduismo.

Il periodo vedico

Quattro sono i Veda: Rig Veda; Yajur Veda con formule sacrificali; Sama Veda, canti liturgici; Atharva o Veda dei sacerdoti del fuoco. I Veda si dividono ognuno in quattro parti: Samitha, inni e formule sacre; Brahamana, testi rituali con esegesi delle liturgie; Aranyaka, scritti filosofici interpretanti il sacrificio vedico;  Upanishad, commenti filosofici sul rituale. Quest'ultime hanno il fine di far conseguire l'esperienza dell'identità tra spirito individuale ed universale.

Il periodo vedico può essere considerato la prima fase della spiritualità indiana. È un periodo contrassegnato dalla presenza di un corpo di formule, rituali e filosofie ben diverse dall'Hinduismo di oggigiorno. In questo periodo è la celebrazione del rituale ad avere il predominio nella vita religiosa affidata ad un brahmano. Il pantheon vedico conosce una trentina divinità, quasi sempre incarnazioni di forze della natura considerate maschili, ad eccezione di Aditi, la madre degli dei.

Al vertice ecco Indra, dio della pioggia e delle acque, Agni, dio del fuoco, Surya, dio del sole, ed inoltre Varuna e Soma. Con il passare dei secoli si formò una teologia in cui gli dei erano divisi in tre categorie: Aditya, dei celesti, Vasu, dei atmosferici, Rudra, dei terrestri. In sincretismo con le preesistenti ed antiche forme locali di religione, questo pantheon di divinità legate alla natura si arricchì di nuove divinità superiori le cui caratteristiche di omnicomprensione sono più simili al dio monoteistico che ad uno panteistico.

Sotto la spinta di una classe sacerdotale sempre più potente e libera di dedicarsi ad attività speculative e filosofiche la cultura degli Arii iniziò a porsi domande ed a trovare soluzioni ai problemi destinati a rimanere impenetrabili.

Il rito e la parola sorreggono l'ordine cosmico

I Veda comprendono più di 80.000 versi ai quali si aggiungono le formule in prosa. Vi sono riunite anche lodi agli dei, preghiere, incantesimi, formule ed affermazioni come l'«Om» che introduce e chiude obbligatoriamente ogni recitazione. Questa religione non è individuale ma è di «clan» o di famiglia. Non è solo devozionale ma è fondata sulla perfezione tecnica rituale da cui dipende il rigore dell'esecuzione del sacrificio e ne assicura l'efficacia. Affinché il sacrificio sia propiziatorio, esso necessita della morte di uno o più animali o deve consistere in libagioni accompagnate da formule verbali o preghiere.

L'ordine cosmico è correlato al buon andamento della vita umana: è così che il sacrificio eseguito dall'uomo agisce sugli dei. Fin dal periodo vedico, l'etica, presa nel senso del rituale quotidiano, è indispensabile per lo sviluppo armonico del mondo. Il microcosmo, rappresentato dall'uomo, è identificato al macrocosmo. Se l'uomo commette errori rituali, questi si ripercuoteranno sull'ordine universale e provocheranno ineluttabilmente il disordine, il caos, la caduta dell'umanità.

Dalla nascita alla morte i riti organizzano e ritmano l'esistenza. Ogni mattina ed ogni sera, l'offerta al fuoco di latte di vacca appena munto, condiziona il sorgere ed il tramonto del sole. Il fuoco era quello del focolare ed il sacrificio era compiuto dal capo della casa. La società evocata nei Veda è composta di iniziati, da famiglie considerate socialmente degne di eseguire i sacrifici secondo i testi sacri.

A tutte queste entità si aggiunge, verso la fine del periodo vedico, il brahman (termine neutro che sarà più tardi personificato dal dio Brahama). Questo principio si situa al momento dell'atto creatore ed è una delle espressioni più antiche della speculazione indiana, tendente al monoteismo e già accennata negli inni vedici più antichi.

La fine ultima dell'uomo compare già nei Veda anche se sommariamente: i defunti scompaiono definitivamente da questa terra raggiungendo un soggiorno remoto, quello degli antenati, dove vivranno per l'eternità.

Il Brahamanesimo:
identità di Sé cosmico e sé individuale

L'entità misteriosa, non ben precisata nei testi antichi e la cui potenza è evocata nella formula sacra o mantra, viene ad assumere contorni più delineati fra l'8° secolo e l'inizio della nostra era, quando ai Veda si accompagnarono prima i commentari o Brahamana, poi le Upanishad o testi scientifici, e successivamente l'epopea del Mahabarata con il Ramayana. Questo insieme costituisce la più potente letteratura religiosa del mondo antico e moderno, arricchita fino ai giorni nostri da innumerevoli chiose, andando dal più alto misticismo al più assoluto nichilismo, passando per la poesia delicata e tenera, i trattati tecnici, le ricette magiche, le epopee, i racconti mitologici, le opere teatrali.

Questa massa letteraria ha un ruolo predominante nel pensiero indiano, non solo organizzandolo nel campo dei rituali ma anche orientandolo verso la filosofia e la mistica.

Il termine brahamanesimo nasce dalla nozione di brahaman, centro del sacrificio vedico in quanto preghiera, parola, energia universale. È una evoluzione rispetto al Vedismo, come l'Hinduismo che ne è il prolungamento. Una principale caratteristica, perdurante anche oggi, è la capacità di assimilare dati nuovi, pur perpetuando le credenze più antiche.

Gli dei vedici vengono conservati, compreso Kubhera, dio della ricchezza, ma alcuni di loro perdono importanza, come Indra, che pur continuando a regnare in una parte dell'universo, l'Indraloka, non ha più un ruolo preminente.

In compenso tre dei acquistano il primo posto e, poco a poco, vengono associati in una specie di triade: Brahama, creatore dell'universo, non più oggetto di un culto personale avrà pochi  santuari dedicati al suo nome. Vishnu, dio solare, che «percorre lo spazio» negli inni vedici, è ora più esaltato e passa al rango di divinità maggiore, acquistando certe specificità dell'Uomo cosmico (Prajapati). Infine Shiva, il quale eredita caratteristiche del Rudra prevedico, poi vedico e prende nel brahamanesimo il doppio aspetto di un'entità terrificante e di un dio propizio e benefico. Proprio come Vishnu, Shiva godrà di un favore crescente nell'Hinduismo, che andrà aumentando fino ai nostri giorni.

Verso la fine del periodo vedico, il concetto astratto del brahaman (termine neutro e di natura misteriosa), era associato alla creazione dell'universo dall'emissione della parola sacra di cui i soli sacerdoti o brahamini erano i detentori. Con il Brahmanesimo si aggiunge la nozione di un «sé» individuale od  atman formando con il brahaman una coppia di due principi analoghi, anzi identici. La loro identità essenziale è affermata nella celebre formula «tu sei questo» (tat tvam asi).

Il Brahaman, che riassume l'essere, la totalità, l'assoluto, l'essenza della cose, la fonte di tutto ciò che esiste, risiede nel sole. L'atman, forza vitale sovrapposta ai sensi, risiede nel cuore ed a quella fonte ritornerà alla morte.

Una volta fatta l'affermazione dell'identità di  un sé individuale e di un Sé universale, la riflessione religiosa (che produrrà fino all'epoca attuale numerosi sistemi filosofici) si è dedicata alla sorte dei defunti andando molto più lontano su questa via rispetto a quella percorsa del Vedismo.

Verso l'Hinduismo: l'atto (karman) e la trasmigrazione delle anime (samsara)

Con il delinearsi dei concetti di peccato, come trasgressione dell'ordine cosmico, e di castigo, associati a Varuna, dio della notte, si sviluppò un'altra forma di credenza: quella della ricompensa degli atti (kharma) commessi durante la vita e destinati a condizionare la sorte di ogni defunto, poiché l'insieme dei viventi è preso in un'immensa ed instancabile corrente perpetua e circolare (samsara) paragonabile al ciclo di una ruota, che costringe gli esseri a nascere di nuovo, una o più volte.

Per rendere questo meccanismo più comprensibile ai miei quattro lettori, diciamo che l'atman (sé individuale) potrebbe approssimativamente tradursi con «anima» e che il samsara alla «trasmigrazione» o  alla «metempsicosi», cioè alla reincarnazione dell'anima in uno o più corpi successivi che possono essere, all'occorrenza, quelli di piante, animali od esseri umani di condizioni sociali diverse, secondo la buona o cattiva qualità degli atti compiuti nella o nelle vite anteriori.

In effetti, il karma è il residuo degli atti compiuti, poiché certi di essi hanno potuto, se erano cattivi, essere espiati prima della morte, mentre quelli che erano stati buoni, essere in qualche modo capitalizzati. Gli atti benefici faciliteranno, dunque, per una nuova vita, una rinascita in un livello almeno uguale, se non superiore, di condizione umana, oppure gli atti considerati cattivi faranno regredire l'individuo condannandolo a rinascere in una condizione inferiore nell'ordine sociale, od addirittura nel regno animale.

Il dharma: ordine universale ed ordine sociale 

Alla identità, affermata dal Brahamanesimo, fra macrocosmo e microcosmo, brahaman ed atman, fa seguito un nuovo punto di vista: l'ordine cosmico non può più essere affidato solo all'efficacia del sacrificio, ma occorre anche un obbligo morale che abbia la stessa valenza sia per il sovrano che per il comune fedele.

Mettendo l'accento sull'efficacia di un comportamento morale individuale e di conseguenza collettivo, l'ordine (dharma) veniva mantenuto ed il servizio religoso assumeva un importanza determinante ed addirittura superiore al sacrificio. Le classi sociali detentrici del potere, sacerdoti e governanti cui è affidato il dharma del regno, erano obbligate ad una condotta esemplare, esente da ogni colpa. Ogni categoria sociale veniva così costretta a collaborare al mantenimento dell'ordine universale tramite il comportamento individuale.

Il Buddhismo: una proposta di salvezza 

Su questo nucleo di credenze che permeava la società si innestò la predicazione del principe Gotama. Il Buddhismo delle origini era molto semplice. All'inizio i teologi sostenevano solo l'esistenza di due piani fra i quali non esiste comunicazione, da un lato il piano samsarico (il nostro mondo) nel quale opera il karma e in cui si vive e si muore continuamente, dall'altro il mondo nirvanico (riduttivamente uguagliabile all'aldilà)  realizzato quando il karma e la sua forza sono stati esauriti e soppressi.

Ecco quanto predicò Sakyamuni, cioè il Buddha storico:

punto elenco tutto è continuamente relazionato e niente può essere distrutto,
punto elenco tutte le cose e tutti i pensieri (esclusi quelli prodotti dall'osservanza della legge) sono legati al dolore e provocano il continuo ciclo dell'esistenza;
punto elenco noi siamo vittime e prigionieri di questo mondo samsarico perché non ne comprendiamo l'esistenza;
punto elenco tutte le cose ed tutti i pensieri sono illusori, privi di una vera esistenza fino a quando non raggiungiamo la maturità spirituale; 
punto elenco esiste un mondo che è aldilà del mondo apparente e pieno di dolore: questo stato è il nirvana. Esso si caratterizza per l'annullamento delle sensazioni illusorie ed è quindi uno stato di «vuoto» nel quale si realizza la piena coscienza.

Buddha non predicò nulla sull'esistenza di Dio o degli dei: essi vivono in un loro mondo a cui anche noi potremmo accedere riincarnandoci. Ma anche gli dei sono soggetti al ciclo della vita. Buddha predicò solo la possibilità di uscita dal ciclo della vita, della morte e della reincarnazione. Seguire la sua via significa entrare in una grande comunità di fedeli: 

    Io mi rifugio nel Buddha,  
    io mi rifugio nella Legge (dharma),   
    io mi rifugio nella Comunità (sangha). 

Giungere al nirvana è possibile affidandosi a questi tre «rifugi» che accolgono il fedele e lo aiutano nella sua esperienza di salvezza. Il buddhista, laico o religioso, accettando la fede, ha scelto di cercare l'illuminazione, cioè l'uscita da questo ciclo di vita e di morte. Per questo non si dedica solo della propria salvezza personale, caratteristica dell'Hinayana, la prima forma di Buddhismo (uso questa distinzione più diffusa, anche se impropria, tralasciando il termine Theravada), ma deve tendere a trasformarsi in Bodhisattva, cioè in Buddha potenziale, preoccupandosi anche della liberazione degli altri dal ciclo delle reincarnazioni. Questa è la via del Mahayana, il Grande Veicolo, la seconda forma di Buddhismo.

L'impatto sociale del Buddhismo fu enorme e la nuova via di salvezza si diffuse ampiamente. Nel 7° secolo anche il Buddhismo subì gli influssi del Tantrismo per poi scomparire sotto il dominio dei Musulmani quando i centri più importanti vennero distrutti e con il passare dei secoli l'India riassorbì anche questa «novità».

L'Hinduismo: come interrompere il samsara 

Il termine Hinduismo, coniato dagli invasori mussulmani dal nome del fiume Indo (Sindhu-Hindu) è oggi applicato ai popoli che occupavano la sua foce e che praticavano la religione brahaminica. Non si tratta di una nuova religione: le basi fondamentali hanno radici nelle religioni prevediche e vediche.

Verso il principio dell'era cristiana, in una progressione lenta, quasi insensibile e senza brusche innovazioni, si imposero cambiamenti e si aggiunsero nuove credenze. Tutto questo si effettuò attraverso l'intero territorio indiano, accompagnato da una grande pluralità di costumi locali, da varie credenze.

La ricerca del meccanismo per interrompere il ciclo delle nascite condusse gli Hindù in varie direzioni. Prima di tutto, naturalmente, nella linea tradizionale cioè verso il rafforzamento della pratica quotidiana dei riti individuali, familiari e collettivi. Vi è una evoluzione importante: il sacrificio di animali viene progressivamente abbandonato. Sopravvive in forma cruente in alcuni culti, come quello a Kali, e lascia posto all'omaggio reso alle divinità sia nei templi, sia in seno al focolare domestico, per mezzo di offerte d'acqua, di latte, di fiori, di luce (bruciando canfora), di grani o dolci, d'incenso e di profumi.

Rimane il grande quesito fondamentale per il fedele indiano, sia esso hinduista o bhuddista: il desiderio, o meglio la necessità, di interrompere il ciclo ineluttabile della trasmigrazione delle anime o samsara.

Numerose vie sono proposte per raggiungere la salvezza (moksha), con la disciplina degli atti (karma yoga), con l'acquisizione della conoscenza (jnana yoga), infine con la devozione (bakti), l'adorazione fiduciosa. Quest'ultima risponde al bisogno di indirizzare il proprio fervore verso una divinità dalla quale ricevere in cambio i benefici di un uguale amore [Queste tre vie e la superiorità della bakti sulle altre forme di devozione sono enunciate nel Bhagavad Gita (Canto del Beato Signore) nel Canto 13° detto «disciplina della devozione».  Il riferimento è all'edizione curata da A.M. Esnoul, ed. it.  Milano 1976].

Bisogna insistere sul fatto che questa divinità, qualsiasi sia nel nome e nelle qualifiche, è considerata come il dio supremo e benevolo, reggente l'universo, l'Assoluto in Sé. La dottrina della bakti si è diffusa attraverso tutto l'Hinduismo ed ha determinato ammirevoli slanci mistici. La proliferazione di sette ha favorito questa forma di liberazione dal samsara e deve il suo successo al fatto che la maggioranza di esse ammette nella pratica della bakti tutti i devoti sinceri, qualunque sia la loro origine sociale, dunque la loro casta; ciò contrasta nettamente con l'intransigenza propria del Brahamansesimo in rapporto all'accesso delle diverse caste alla pratica religiosa.

I testi puranici ed il ritorno della Dea Madre 

I Purana (lett.: cose antiche) sono i testi che costituiscono la struttura  religiosa e mitologica dell'Hinduismo, così come i Veda lo sono per il Brahamanesimo. Attraverso queste raccolte si ha la sintesi delle componenti religiose, culturali ed etniche del subcontinente indiano. Brahama, Vishnu e Shiva sono considerati massima espressione dell'Uno, del Divino nelle molteplici forme: accanto ad essi troviamo una miriade di divinità di origine dravidica. Ma soprattutto è il ritorno della Dea Madre, la Grande Dea, Maha Devi che si afferma in mille forme ed in mille nomi, in mille elementi lunari che entrano con forza nella ortodossia religiosa dando luogo allo Shaktismo con l'adorazione della shakti, energia femminile, essa stessa creatrice dell'Universo.

I Purana sono distinti in 18 maggiori (Maha Purana) e 18 minori (Upa Purana), in ognuno di essi troviamo la presenza di una particolare divinità, di cui vengono presentate vita, culto, mitologia. Nel periodo Puranico, l'Hinduismo matura una dimensione che giunge inalterata fino ai giorni nostri. Sotto alcuni tratti comuni, come la trasmigrazione delle anime, convivono diversi modi di realizzazione, differenti cammini per giungere all'Unione con l'Assoluto.

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