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Vajrayana

Vajrayana: la via di diamante
una religione per gli uomini dell’Himàlaya

Buddhismo e Tantrismo si fondono nel Vajrayana

Attorno al settimo secolo della nostra era, una nuova corrente buddhista si diffonde nell’India settentrionale: il Vajrayana (skt. veicolo del fulmine od anche del diamante). La dottrina buddhista viene trasformata mediante l’acquisizione dei riti tantrici sviluppatisi nell’Hinduismo (simbolo stesso del vajra (skt.: il fulmine; tib.: dorje) viene mutuato dallo Shivaismo. Questo sincretismo mostra come l’India abbia cercato di rincanalare il Buddhismo fra le correnti tradizionali hinduiste.).

Il Vajrayana si diffuse soprattutto nel Bengala e nello Swat (attualmente in Pakistan) con forme ormai scomparse ma i suoi principi teorici possono essere desunti da quelli del Lamaismo tibetano, o Mantrayana (skt.: veicolo dei mantra, o meglio via delle invocazioni) o anche Tantrayana (skt.: veicolo dei tantra, o meglio via dei libri), che ne è la continuazione dottrinale.

Per raggiungiungere la piena conoscenza il Vajrayana (tib.: Dorje-tegpa, veicolo di diamante) è la terza via, dopo Hinayana e Mahayana (scheda: Il Buddhismo: una proposta di salvezza, pag.: 000.). Il veicolo di diamante accoglie elementi dei due yana precedenti ma accelera i tempi della salvezza. Il fedele che seguiva le prime due vie, limitandosi alle sole regole della  Paramita Yana (veicolo della perfezione, qui nel senso di metodo), necessitava di lunghissimi ed incalcolabili periodi di reincarnazioni successive per raggiungere lo stato di Buddha. Ora, con il Vajrayana e le pratiche tantriche del Mantrayana, egli può raggiungere la salvezza anche in una sola vita, godendone i frutti già in questa esistenza (Non mi soffermo sulle complesse distinzioni dottrinali che dividono l’Hinayana nelle scuole Vaibhashika e Sautranticka ed il Mahayana in Chittamatra e Madhyamika (ulteriormente divisa in Prasancika e Svatabtrika). Rimando ad una paziente lettura di: Tsongkapa, J. Hopkins, Tenzing Gyatso 14° Dalai Lama, Tantra in Tibet, New York 1987). La gradualità del sentiero dottrinario e della comprensione dei tre veicoli come stadi successivi di un unico processo di salvezza, viene applicata progressivamente in base alle capacità intellettuali ed ai presupposti morali e karmici dell’iniziato.

Ma la legge di Buddha (Dharma) non può essere solo spiegata e studiata, essa va anche meditata e compresa. La condotta di vita del fedele deve però essere guidata come lungo un sentiero (tib.: lam) con un metodo ben preciso che unifica progressivamente i vari momenti di studio, di applicazione interiore, di meditazione personale e di comportamento morale. Con il trascorrere dei secoli, all’interno del Buddhismo e poi del Lamaismo si sono quindi formati diversi sistemi filosofici e teologici ed ogni scuola che ne è derivata, ha stabilito differenti interpretazioni ed ha sviluppato propri metodi per percorrere la via della liberazione.

Padma Sàmbhava predica il Vajrayana in Himàlaya

Il Buddhismo, nella sua versione del Vajrayana del 700 d.C., giunge nelle valli himalayane dapprima in Ladakh, territorialmente vicino allo Swat, e successivamente in Tibet dove si scontra sia con altre correnti del Mahayana provenienti dalla Cina, sia con la preesistente religione Bon. Artefice del Ngadar, prima diffusione, è Padma Sàmbhava al quale la tradizione attribuisce una importanza forse superiore a quanto in realtà abbia rivestito. Egli si presenta come maestro spiritualità e di ascesi ma anche, e soprattutto, come un grande mago che accontenta il desiderio di prodigi così diffuso fra le popolazioni degli altipiani e che era alla base di molti riti degli sciamani bon. A questo santo (detto anche Urgyen, traduzione in tibetano del nome sanscrito del luogo di nascita Uddhyana) la tradizione popolare attribuisce la conversione della miriade di demoni che infestavano gole, montagne ed altipiani, e che diventano protettori e paladini della fede. Padma Sàmbhava ed i teologi di quel secolo operarono un sincretismo fra riti Bon e tradizioni del Vajrayana, accentuando anche gli aspetti magici portati dal Tantrismo.

La seconda diffusione del Vajrayana in Himàlaya

Passata la bufera della persecuzione del re tibetano Langdarma, ultimo tentativo della religione Bon di reagire al Buddhismo, si ebbe la seconda diffusione del Buddhismo, Phydar. Ad essa contribuì involontariamente l’Islam che, perseguitando e distruggendo le comunità buddhiste e le università indiane, costrinse molti religiosi a trovare rifugio nelle terre aldilà dei monti. Questo esilio coincide con la vigorosa rinascita del Buddhismo tibetano. Accanto ai grandi pensatori indiani, come Atisha e Naropa, troviamo maestri di origine tibetana come Marpa, Milarepa, Gompopa, Bronton e Buston . Si delinearono correnti di pensiero,  scuole di insegnamento e vere e proprie sette che si distinguevano per discipline ascetiche, regole monastiche, liturgie ed addirittura per vestiti e paramenti.

I Nyingma-pa (lett.: gli antichi) rimasero fedeli agli insegnamenti di Padma Sàmbhava. Altri adottarono i nuovi tantra portati da maestri indiani come Atisha. Egli diede origine ad una serie di abati i cui seguaci si chiamarono Kadam-pa. Altra scuola fu quella dei Sakya-, che prese nome da una località posta poco a nord del monte Everest. Gli abati Sakya assunsero notevole importanza nel controllo politico del Tibet, divenendo una sorta di viceré rappresentante del potere dei lontani principi mongoli. Ma ad Atisha, attraverso Naropa, Marpa e Milarepa, si collega anche la scuola kagyu fondata da Gompopa, da lui discendono varie linee di patriarchi fra le quali le più importanti furono quelle Karma-kagyu, Drigung-kagyu e Drug-kagyu. È in questo periodo che nasce la popolare distinzione fra berretti neri (Nyingma-pa) e berretti rossi (gli altri) che tanta confusione crea in chi cerca un elemento che porti a distingueue le sette.

Nel 14° secolo la dottrina lamaista trova il suo assestamento definitivo con la riforma voluta da Tsongkapa che, risalendo ad Atisha attraverso i Kadampa, da origine alla scuola gelug (virtù) o dei Gelug-pa (quelli della virtù, i virtuosi). Assunta a potenza religiosa e politica, chiamata anche setta gialla o dei berretti gialli per contrapporla a tutte le altre chiese non riformate, dette rosse per i differenti abiti liturgici, la scuola gelugpa si scontrò per due secoli con gli altri ordini, specie con i Karma-pa e i Drigung-pa, per il controllo del Tibet.

La reincarnazione garantisce legittimità e continuità al potere

È in questo periodo che la teoria del Bhodisattva che si reincarana per adoperarsi all’altrui salvezza trova una applicazione pratica nella teoria del tulku, il corpo illusorio, che non è più l’incarnazione casuale di qualche santo uomo o di una divinità ma diventa un sistema abituale di trasmissione del potere. Il superiore di una setta educa e controlla (qualcuno direbbe indottrina) il reggente od i reggenti che a loro volta sceglieranno ed istruiranno, il bambino nel quale il superiore si è incarnato e che a sua volta individuerà ed istruirà l’individuo in cui il reggente si incarnerà dopo la morte.

Il Varjayana elabora il mandala dei cinque Buddha

Al termine della sua evoluzione millenaria, il Vajrayana himalayano si presenta con forme completamente differenti sia dal Buddhismo originario che da quello praticato oggi in Birmania, Thailandia e Sri Lanka dai monaci Theravada, o da quello Mahayana diffuso in Cina, Giappone, Korea.

Noi occidentali lo chiamiamo anche lamaismo, per la figura ed il ruolo che il lama (superiore) esercita. In contrasto con i caratteri originali del Buddhismo, il quale non parlava di Dio o di Dei, ed ancor meno considerava il Buddha una divinità, poiché era una filosofia od un modo etico di vivere, il Vajrayana si presenta come una religione vera e propria. Con il passare dei secoli il lamaismo ha sviluppato una sua cosmogonia ed un complicato pantheon[1].

La figura più elevata di questa schiera di esseri divinizzati è l’Adi Buddha (skt.: adi =primo), dio eterno e quindi da sempre esistito e mai creato da un’altra lui superiore. Egli è chiamato Swayambu dai Nepalesi che per primi unirono le tendenze all’assoluto del Buddhismo con la richiesta di un dio ben identificabile da parte della religione popolare.

Oggigiorno l’Adi Buddha ha nomi diversi a seconda delle varie chiese in Nepal, Ladakh, Tibet, Cina o Giappone. Per i Gelug-pa egli è Vajadhara (skt. colui che tiene la folgore; tib.: Dorje-chang) mentre per i Kagyu-pa è Vajrasattva (skt. la cui essenza è la folgore; tib.: Dorje-sempa). Esiste l’Adi Buddha Samantabhadra (bontà universale, tib.: Kuntu-zangpo) onorato dai Nyingma-pa. Le emanazioni dell’Adi Buddha sono sette, di cui cinque rivelate ed applicando ad esse la dottrina dei tre livelli di vita (tri-kaya) si ha quell’infinita schiera che costituisce uno dei più interessanti aspetti artistici dell’arte himalayana.

Questa complessità di figure divinizzate è inesauribile. È difficile per il fedele comprendere che esse sono raffigurazioni di differenti momenti meditativi lungo la via di liberazione. Forse un lama può riconoscere in Akshobhya (Buddha supremo della conoscenza dello specchio) il concetto che ogni divinità non è altro che una proiezione di noi stessi e delle nostre méte ideali; ma per il comune fedele egli è uno dei tanti dei ai quali chiedere benevolenza e protezione.

In questo mondo complesso di demoni e divinità, Siddhartha ha ottenuto un suo posto. Divinizzato, ma senza divenire così importante da essere l’Adi Buddha, il principe Gotama viene onorato come la emanazione di un Buddha supremo e come Sakyamuni occupa il ruolo del Buddha mortale ed incarnato nella nostra epoca.

Le famiglie di Buddha, una psicologia religiosa

La natura universale del Buddha si espande nel mondo visibile, manifestandosi in forme (discendenze) diverse e sfruttando l’abilità dei mezzi per assumere un aspetto adatto a tutti gli esseri viventi. L’abilità dei mezzi consente al Buddha di apparire e parlare a tutti gli esseri viventi nella forma più appropriata.

Il mandala, il cerchio mistico, con un Buddha al centro e gli altri ai punti cardinali, si affermò col tempo diventando una spiegazione non solo del cosmo ma anche della mente umana. Ai cinque Buddha principali furono associate cinque discendenze o famiglie, ognuna collegata alle cinque passioni che traggono in inganno gli esseri viventi.

Tenendo presente la dottrina dei tre corpi o tre piani dell’esistenza (tri-kaya) ed intersecandola sia con le cinque direzioni sia con quella delle ere (kalpa) che sarebbero cinque (la attuale è la quarta), si può delineare il complesso sistema di Buddha supremi e di loro emanazioni, ognuna delle quali è identificabile in linea di massima attraverso una iconografia che attribuisce loro una serie cospicua di altre pentadi; direzioni dello spazio, colori, veicoli, elementi, gesti o mudra, simboli od attributi, sillabe o mantra, famiglie di divinità, componenti della personalità (skanda), le passioni che essi combattono, e le shakti, personificazioni femminili che sono espressione della loro energia e della loro saggezza.


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22 settembre 2001
   

Kathmandu