Su Vajrayana Iconografia Architettura

Iconografia

Le rappresentazioni di Buddha

Siddhartha Gotama Buddha inizia ad essere rappresentato antropomorficamente solo verso l’inizio della nostra era. All’inizio era raffigurato in piedi. Poi si iniziò a rappresentarlo nella posizione classica del fior di loto. Sakyamuni ed i dodici episodi della sua vita formano un tema caro ai pittori, in genere il Buddha storico viene raffigurato seduto nella posizione adamantina, la mano sinistra in grembo che sostiene la coppa delle elemosine mentre la mano destra distesa in basso tocca la terra, chiamata a testimoniare l’avvenuta illuminazione. In ogni caso Siddhartha indossa la tunica senza maniche dei monaci questuanti ed è privo di ornamenti.

Gli Adi-Buddha sono rappresentati seduti, con la corona di gioielli e la veste di giovane principe indiano, reggono la folgore e la campanella nell’atteggiamento detto vajra-um-kara. Solo la posizione delle mani differisce fra Vajradhara e Vajrasattva. Samantabhadra è invece rappresentato completamente nudo, di un color azzurro cupo.

I Buddha Supremi

In primo luogo figurano i cinque Buddha Supremi, (skt. Jina o Thathagata) che partecipano del  Dharma-kaya, la sfera suprema ed essenziale della legge. Presso alcuni studiosi sono indicati come i Buddha della Meditazione (skt.  dhyani - Buddha) ma il termine è usato impropriamente. I cinque Jina (tib. Gyalwa Rigna=vittoriosi) regnano sull’universo e quindi anche sulle due sfere sottostanti del Sambogha-kaya e del Nirmana-kaya, dove si ripresentano con altri nomi.

I cinque Jina sono identificabili per colori e per determinati attributi o veicoli che possono comparire anche da soli a simboleggiare la divinità. Ognuno dei cinque Tathagata presiede ad una delle direzioni alle quali va aggiunto il centro (Queste pentadi  non sono da confondere con i quattro re-guardiani delle quattro direzioni cardinali posti all’ingresso delle sale di culto).

Quando sono rappresentati in atteggiamento antropomorfo sono disegnati scolpiti o modellati nella posizione yoga del loto o diamante (padmasana), con le gambe incrociate ed ambedue le palme dei piedi rivolte in alto formando un gigantesco loto, simbolo della coscienza illuminata. In questa posizione i Jina indossano la veste monastica ed hanno una capigliatura raccolta e sormontata da un ciuffo di capelli (skt.: ushnisha) caratteristico di Buddha.

I mudra dei Buddha supremi

Ognuno di essi rispetta il codice gestuale che gli è proprio e che simboleggia il mudra, cioè l’attitudine attribuitagli. Le mani all’altezza del cuore di Vairocana «fan girare la ruota della legge» nel gesto tipico dell’insegnamento. Con le mani appoggiate l’una sull’altra all’altezza dell’addome e le palme rivolte in alto i pollici che si toccano formando un ovale, Amitabha rivela l’attitudine alla meditazione. La mano destra di Amoghasiddhi all’altezza del cuore con la palma rivolta in avanti significa benedizione e protezione (mudra «dell’argomento»). Con la destra che tocca il suolo e la sinistra a palma rivolta all’interno appoggiata sul grembo,  Akshobya «prende la terra a testimone» e ricorda l’episodio storico nel quale Sakyamuni si accinse ad intraprendere una nuova vita. Infine Ratnasambhava tiene la mano destra in avanti per indicare la generosità ed il distacco, fondamentali in ogni rinascita spirituale.

I cinque dhyani-Bodhisattva

Nella sfera del Sambhoga-kaya ecco i Bodhisattva, emanazione dei Jina dai quali derivano attributi ed attitudini. Se i Thathagata sussistono come pura astrazione e meditazione, i  Bodhisattva ne sono il corpo perfetto e mediano fra il mondo dell’assoluto e quello di noi mortali.

Nelle raffigurazioni i Bodhisattva si distinguono nettamente dai Jina poiché sono rivestiti da paramenti differenti: vesti suntuose, immagine di dignità, una corona a cinque punte, simbolo della realizzazione dei cinque aspetti della saggezza ed i sei preziosi ornamenti, oggetti simbolo della realizzazione delle sei virtù trascendentali del Paramita (pazienza, generosità, purezza d’intenzione, compassione, distacco, saggezza). Nel loro aspetto pacifico, meditativo e benevolo, essi siedono al centro del cuore di un fiore di loto nella posizione adamantina della meditazione (padmasana), quando sono raffigurati nell’aspetto terrifico e battagliero assumono un atteggiamento dinamico che è molto coreografico. La corona è formata da cinque teschi, sono circondati da un’aureola di fiamme simbolo di forza ed energia, camminano sul cadavere dell’ego addobbati con ossa e scatole craniche e bevono il sangue, impugnando micidiali armi di ogni tipo.

Manjushri è strettamente legato od addirittura sostituisce Samantabhadra, spesso cavalca come veicolo un elefante, simbolo della coscienza pacifica. Egli regge un libro ed impugna una spada, simbolo della saggezza che taglia l’ignoranza. Il Bodhisattva maggiormente rappresentato è Avalokiteshvara, il signore che guarda verso il basso (con compassione) chiamato anche Padmapani (portatore del loto, tib.: Chenrezi), che impersona il principio dinamico della compassione. Nella tradizione assumerebbe addirittura ben centotto forme differenti, ma nell’iconografia è più semplicemente rappresentato in due o tre forme: con undici visi (Chukchiggyal), con quattro paia di braccia (Tugse chenpo) oppure con una raggiera formata da mille braccia, mille mani recanti mille occhi.

Vajrapani (skt.: il portatore del fulmine) nell’aspetto terrificante danza fra mille fiamme ed impugna il fulmine oppure un serpente, attributi simboleggianti i mezzi idonei a conseguire l’illuminazione.

I cinque Manushi-Buddha

I Buddha umani, che appaiono nel mondo contingente e tangibile, il Nirmana-kaya. Essi hanno avuto od avranno un corpo umano e con la loro presenza segnano l’inizio di una nuova era. Fra essi compaiono il principe Gotama, venerato come Sakyamuni, e Maitreya  il Buddha della prossima era. Il loro numero varia, secondo i sistemi, da cinque a sette e sono rappresentati nella posizione del loto, escluso il Buddha futuro che è in genere raffigurato in piedi o seduto all’occidentale.

Divinità femminili, demoni protettori e santi

La più popolare delle divinità femminili, venerate per se stesse o perché emanazione (shakti) di uno dei vari esseri illuminati, è Tara (tib.: Dolma) che è l’archetipo della gran madre e come tale è incarnazione della misericordia e della protezione. Associata a Maitreya od ad altri Buddha, essa assume talvolta numerose forme, venti secondo alcune scuole, centootto secondo altre. Più sovente si ha la distinzione fra Tara bianca e Tara verde (tib.: Dolma Doljan e Dolma Dolkar), che si sarebbero incarnate nelle principesse Wengchen, cinese, e Brikuti, nepalese, mogli di sRrong-bTsang-Gampo, primo sovrano buddhista del Tibet. Le due raffigurazioni ricordano l’incontro fra Mahayana indiano e cinese nel concilio indetto dal re a Lhasa.

Ad ogni Buddha sono state associate delle Shakti: ognuna di esse è la personificazione dei vari modi in cui si esprime la conoscenza. Oltre a queste divinità femminili ve ne sono altre che pur non raggiungendo l’importanza delle shakti occupano il rango di divinità minori. Esse sono le dakini (tib.: khadongma) considerate protettrici della legge al pari dei loro omologhi maschili dharmapala (skt.: custodi della legge; tib.: chos-kyong). Queste divinità appaiono sempre nel loro aspetto terrificante, come si conviene a chi deve combattere contro i nemici della legge. Fra i più famosi Yamantaka, Mahakala, Dukör. Fiamme, spade, occhi orripilanti ed altri atteggiamenti che incutono terrore sono i loro strumenti per spaventare il nemico; ogni oggetto simboleggia un mezzo di elevazione spirituale e serve metaforicamente a combattere un nemico che non è fisico ma è una delle passioni che accendono il nostro animo legandolo al samsara. Di aspetto mezzo animalesco e mezzo umano esse costituiscono una ulteriore impressionante schiera di esseri del pantheon himalayano nel quale vanno annoverate anche tutte le piccole divinità locali (tib.: yul-lha) che proteggono passi, fiumi, montagne, campi e villaggi. È attraverso queste divinità tutelari che il mondo del soprannaturale, le credenze della religione Bön e le leggende create dagli sciamani si sono integrate nel Vajrayana. Esse completano lo stuolo di esseri ai quali il fedele eleva la sua richiesta di protezione ed aiuto nella lotta continua contro la montagna alla quale deve strappare lo spazio per sopravvivere.

I guardiani delle quattro direzioni

I re delle direzioni dello spazio (tib.: Gyalchen deshi; skt:. Lokapala) sono mitiche deità minori del pantheon lamaista ma li ritroviamo già nei più antichi documenti conosciuti che raccontano la leggenda di Buddha. In Himàlaya vengono rappresentati come guerrieri, secondo il modello dell’Asia centrale, e ciascuno è riconoscibile grazie ai colori ed agli oggetti a lui attribuiti. I Gyalchen Deshi vengono riprodotti sulle pareti dei loggiati antistanti i Dukang.

Vishravana (tib:. Nam Those), protettore degli yak, guardiano del nord è giallo, immagine della vegetazione che muore, tiene lo stendardo con la destra ed una mangusta con la sinistra, presiede alla frontiera fra il manifesto ed il non manifesto. Il bianco, colore dell’alba e della «chiara luce» (tib.: odsel) è l’attributo di Dhritarashastra (tib.: Yul Khorsung), re dei musici celesti (tuono ecc.), guardiano dell’est e della frontiera fra la nascita e la morte, che stringe in grembo un liuto. Virudhaka (tib.: Phak Hyapo), sovrano degli spiriti maligni, è verde, colore simbolo di lussuria e vitalità, guardiano del sud e della frontiera fra l’immortalità e l’esistenza condizionata dal passare del tempo, egli ha per simbolo la spada e sul capo, al posto dell’elmo porta talvolta la pelle d’una testa d’elefante. Infine ecco re Virupaksha (tib.: Mig Midog), con il corpo rosso, re dei Naga e guardiano dell’ovest, della frontiera fra essere e non-essere, regge in mano un piccolo chorten. I nomi dei quattro guardiani, qui trascritti in sanscrito, sono difficilmente riconducibili singolarmente ad un medesimo nome tibetano[2].

Padma Sàmbhava

Accanto agli esseri divini ed alle personificazioni degli elementi della dottrina abbiamo anche tutta una fila di figure leggendarie del Buddhismo e le innumerevoli enumerazioni dei maestri e dei santi dei vari ordini. Il santo più importante è sicuramente Padma Sàmbhava, portatore del Buddhismo in Himàlaya. Le sue raffigurazioni si riconoscono subito per l’abbigliamento principesco e per il caratteristico cappello che tiene in capo. Inconfondibili sono i baffetti ed il pizzo a mosca. Nella mano destra impugna il vajra e con la sinistra sorregge il cranio-coppa (kapala); appoggiato ad un fianco tiene il khatvanga con crani e teschi umani. Nelle statue riproducenti il prezioso maestro, ma anche in quelle degli altri guru e grandi lama, si noterà che essi indossano numerosi abiti: una veste bianca che rappresenta il Vajrayana, poi l’abito da monaco dell’Hinayana, ed il tutto è quasi coperto da una cappa azzurra, da un mantello arancione e da un cappello che indicano la pratica del Mahayana. Padma Sàmbhava è talvolta affiancato dalle due mitiche mogli.

I quattro mahasidda

Ogni ordine pone i propri maestri, lama ed abati ad un rango così elevato da esser spesso pari ai vari Buddha del Vajrayana. I quattro mahasidda Tilopa, Naropa, Marpa, Milarepa, occupano un posto di preminenza nei templi dei Kagyupa. In virtù delle loro capacità di yogi essi si distinguono nettamente nell’iconografia ufficiale differenziandosi dai maestri successivi per la lunga capigliatura e per l’assenza della cuffia liturgica. Riallacciandosi all’episodio storico in cui il mahasidda Tilopa resuscitò alcuni pesci, il codice rappresentativo lo raffigura assieme ad uno di questi animali; il suo eminente discepolo Naropa sostiene con le mani una coppa ricavata da un cranio (tib.: kapala) e lo scettro tridente su cui sono infilate tre teste umane (tib.: khatvanga) simboli della vittoria sul mondo delle apparenze. Seduto su una pelle d’animale e spesso raffigurato all’interno di una caverna, Milarepa porta la mano destra all’orecchio per «ascoltare il proprio canto interiore» come racconta la tradizionale raffigurazione di questo squisito poeta tibetano (Sulla vita del più amato dei santi tibetani consiglio: J. Bacot (a cura di), Vita di Milarepa, i suoi delitti, le sue prove, la sua liberazione, ed.it. 1966 ed ovviamente il film Milarepa di Liliana Cavani), ed infine Marpa di Lhobrang, il traduttore, regge un libro simbolo di erudizione ed un kapala che indica la capitolazione dell’ego e la realizazione spirituale.

Espressioni artistiche: le tecniche di esecuzione

L’arte himalayana ha una origine che si può far risalire alla scuola artistica dei newari, la popolazione dallo spiccato senso artistico che fiorì ed abbellì la valle di Kathmandu, Patan e Bagdaon fin dal settimo secolo. Gli artisti nepalesi lavorarono all’estero seguendo l’espandersi della dottrina buddhista, raggiungendo la Cina e poi, con la seconda diffusione del Buddhismo, in Himàlaya, abbellendo i templi tibetani e ladakhi. Un secondo notevole influsso si ebbe con i viaggi di Rinchen-zangpo, che tornò dall’India con un seguito di artisti e di oggetti artistici, soprattutto tanke, di fattura kashmira. Più tardi le matrici kashmira e newari, entrambe di origine indiana, si dissolsero dando origine, verso il 15° secolo, ad uno stile completamente tibetano, che era pur tuttavia caratterizzato sia da influssi cinesi che da influssi provenienti dalla corte moghul.

L’evolversi del gusto e degli stili è accompagnato da un processo di sviluppo sia della iconografia, intesa come sistema codificato di rappresentazione di singole divinità, sia la iconometria che stabilisce le proporzioni per ogni singola schiera di divinità. Prima di consolidarsi in norme definitive entrambi questi sistemi furono caratterizzati da mutamenti e da abbandoni che riflettevano il sorgere od il decadere di nuove e vecchie tendenze filosofiche e religiose. L’introduzione del sistema dei cinque kalpa ha portato ad evolversi, per esempio, la figura del Buddha, che era inizialmente rappresentato in piedi mentre ora questa posizione è attribuita solo a Maitreya.

La tradizione artistica riflette quindi tutta una evoluzione iniziata più di duemila anni fa, le regole oggigiorno adottate dagli artisti si rifanno quindi da una parte alla tradizione dei loro predecessori, dall’altra ad alcuni testi canonici per alcuni dei quali si conoscono versioni differenti fra loro.

I codici e la tradizione forniscono quindi i canoni da usare nel produrre l’opera d’arte ma danno anche la chiave di interpretazione di ogni elemento raffigurato nel dipinto. Quelle che a noi sembrano solo posizioni terrificanti od oggetti raffigurati solo per puro senso estetico o per riempire alcuni vuoti sono invece simboli essenziali per comprendere il significato dell’immagine. Fiamme, braccia sovrannumerarie, teschi, terzo occhio, coppe traboccanti di sangue, spade ed ogni altro oggetto raffigurato, hanno un loro preciso significato e rimandano ad elementi della dottrina del Vajrayana. Raffigurazioni cruente e raccapriccianti sono simbolo di azioni nobili ed elevate spiritualmente. Così il kapala, la scatola cranica, quando trabocca di sangue è simbolo della suprema beatitudine, e la khatvanga, l’asta con infilate tre teste mozze ricorda il superamento di tutte le nozioni di sostanza e non sostanza.

Tangke

Le tangke sono l’elemento più caratteristico e peculiare di tutta l’arte sacra himalayana. La forma è generalmente rettangolare verticale, con una tela dipinta ed incorniciata da broccato o da altro tessuto leggermente svasato nella sezione inferiore. Nella lingua tibetana esistono vari termini: thang-ka è la pittura a rotolo, bris-thang se dipinta su tela, si-thang se tessuta, phyag-drubs se cucita ed infine gos-thang se ricamata. Altri termini si riferiscono alla colorazione. Per lo più è il cotone bianco a trama fitta che costituisce la tela su cui lavorare, qualche volta si adopera anche la seta. Fissatala sul telaio viene cosparsa di colla di origine animale per evitare che il colore sia troppo assorbito, su di essa si applica quindi una base di calce e colla. che vien quindi raschiata e lisciata accuratamente. Individuato l’asse verticale al quale, secondo il canone iconometrico, vanno rapportate tutte le misure successive, l’artista traccia a matita od a carboncino l’immagine principale e successivamente le figure di minor importanza.

A lavoro ultimato la thang-ka viene incorniciata con vari tipi di stoffa, in genere broccato di provenienza straniera (Cina od India). Rigorose proporzioni devono essere mantenute nel comporre la cornice che ha la sua importanza. Talvolta, nella sezione inferiore, essa reca un altro disegno raffigurante la porta che conduce dal nostro mondo illusorio a quello spirituale rappresentato dalla pittura.

 Il retro può essere foderato di cotone o tela, la parte anteriore è protetta da una tendina di seta sottile o di stoffa, cucita all’estremità superiore. Due nastri di lunghezza determinata pendono ai lati. Cornice e fodera sono realizzate da sartorie specializzate. Il dipinto viene mantenuto disteso da una asticciuola cucita lungo l’estremità superiore della cornice, mentre in quella inferiore vi è un’asta più grossa. Una cordicella consente di appendere il dipinto e due lacci alle estremità superiore permettono di arrotolare e chiudere la thang-ka.

Statue

All’interno delle cappelle buddhiste si trova un numero impressionante di statue raffiguranti guru e maestri dei numerosi ordini. Esse vengono eseguite con vari materiali che vanno dai metalli nobili alla semplice argilla. Quelle di metallo fuso sono composte con oro, argento o bronzo, ma spesso esse sono state fuse con leghe nelle quali viene introdotto stagno o rame. Le statue variano di dimensione e non sempre la grandezza è direttamente proporzionale all’importanza od alla venerazione attribuite al personaggio. Impreziosite con gemme e pietre dure, con broccati intessuti di filigrane d’oro e d’argento, le statue vengono onorate con l’apposizione della sciarpa bianca (kata). Altri materiali sono legno od argilla, laccati e verniciati con vari colori a seconda del codice iconografico.

Dipinti murali

La decorazione di statue, murali e rotoli, avviene tramite l’uso di colori ricavati dai minerali estratti fra le montagne od importati da altre regioni. È probabile che gli artisti tibetani avessero elaborato alcune tecniche per sintetizzare pigmenti e colori. Il vermiglione veniva sintetizzato tramite sublimazione; procedimenti chimici furono adottati per produrre pigmenti verdi ed azzurri dalla malachite e dalla azzurrite ed altre lavorazioni procurarono una gamma molto vasta di colori. Altri colori dovevano essere importati, come il turchese dall’Iran, poiché non presenti nelle montagne himalayane. Più semplice la produzione di bianco dai carbonati di calcio ed di nero dalla carbonella. Fra i coloranti di origine organica era usato l’indaco, importato dall’India, e la lacca, prodotta dalla secrezione di un insetto. Queste tecniche di produzione locale dei colori sono state abbandonate nella produzione artistica del nostro secolo e sono state sostituite dai coloranti sintetici importati dalle industrie europee ed asiatiche.


Arte sacra in Himàlaya: dipingere e meditare


Quelle che a noi appaiono splendide raffigurazioni di demoni, divinità, simboli, episodi storici, decorazioni semplici, e dei quali siamo in grado di valutare la qualità e apprezzare l’esecuzione come opere d’arte, hanno per i popoli himalayani un significato che non può essere afferrato e compreso se non si conosce il complesso simbolismo religioso. Il turista deve quindi integrare i propri criteri estetici sia in campo architettonico, che pittorico o statuario, con un sistema di riferimento che prenda in considerazione sia le concezioni filosofiche del Buddhismo che le credenze religiose del Vajrayana evolutesi nel corso dei secoli.

 Le divinità del Vajrayana sono di natura diversa da quelle delle altre religioni. L’unica realtà permanente è il vuoto che lo spirito sperimenta distaccandosi dai moti dell’animo per raggiungere la piena autocoscienza. Da questa pienezza del vuoto (concezioni difficilmente comprensibile perché a prima vista contraddittoria) emanano radiazioni luminose che assumono la forma di presenze spirituali; esse rappresentano le virtù alle quali il fedele deve tendere. La funzione dei vari esseri illuminati è quella di essere simboli di stati mistici ed oggetto della meditazione.

L’artista aiuta quindi l’asceta e la pittura sacra è un mezzo per compiere un esercizio interiore di meditazione. Le tecniche ascetiche utilizzano le immagini come strumento di liberazione e le figure sono indirizzate non solo alla salvezza dell’artista ma anche di tutti quei fedeli che hanno mezzi ed attitudini sufficienti per comprenderne il significato.

Il religioso, nel corso dei suoi studi e delle pratiche di meditazione, riceve dal proprio maestro un yddam (skt. istadevata), cioè una divinità personale. L’yddam non è un protettore al quale ricorrere in caso di pericolo, ma è la visualizzazione di particolari caratteristiche psicologiche che il maestro ha individuato nell’allievo e che devono essere sviluppate. Identificandosi nella meditazione con il proprio yddam, l’allievo cerca di liberarsi da ogni passione, di liberare tutte le energie che ha in sé di sviluppare al massimo ogni aspetto positivo della propria personalità.

per saperne di più:

Lo Bue E.F., Sku- thang, pitture tibetane dal quindicesimo al ventesimo secolo, Firenze 1983.


 


Bhavachakra: la ruota della vita

Un gran demone fra le cui mani sta un timone variopinto: questo il primo colpo d’occhio sulla sidpa korlo (tib.: la ruota della vita). La raffigurazione è già presente negli affreschi delle caverne di Ajanta, nell’lndia del sud, che risalgono agli albori dell’arte buddhista, ma è giunta fino a noi soprattutto grazie al Buddhismo vajrayana che nel 7° secolo acquisisce l’uso della bhavachakra (skt.: ruota della vita) e le attribuisce un significato simbolico ed essenziale nella iconografia lamaista.

Generalmente riprodotta sulle pareti dei loggiati antistanti l’ingresso delle sale d’assemblea e di culto, assieme alle immagini dei guardiani delle quattro direzioni, ma è anche rappresentata su thanka.

La ruota ha il compito di rammentare, a chi sceglie le gioie terrene, tutto l’orrore del ciclo delle reincarnazioni che imprigiona in questo universo sottoposto alla legge karmica di casualità, un orrore da cui si fuoriesce solo con la beatitudine del nirvana. Il primo obbiettivo di ogni insegnamento buddhista è quello di creare delle basi didattiche attraverso il simbolismo e l’iconografia che aiutano l’uomo a prender coscienza di questa legge ineluttabile e gli conferiscano poi i mezzi affinché egli sia artefice del proprio destino.

La ruota della vita segue precisi canoni stilistici che ritroviamo riprodotti più o meno fedelmente in tutte le varie raffigurazioni.

La ruota è un grande circolo ed è stretto fra gli artigli ed i denti di un demone (in India dal mostro Anytlata) nelle zone tibetane da Mahakala, signore del tempo e quindi della morte e del perpetuo mutare. Il suo capo è cinto da una corona di cinque teschi che rappresentano i cinque peccati capitali: ignoranza, odio, desiderio, egoismo, passioni.

Sulla sinistra della testa è riprodotto Buddha che, con il braccio destro sollevato, indica una ruota della legge (skt.: dharmachakra) posta alla destra della testa del demone; seguire questa legge è l’unica fonte di riscatto per l’individuo e Buddha è d’esempio, la stessa posizione, fuori dal disegno della ruota, dimostra che si può raggiungere l’Illuminazione ed uscire dal ciclo karmico.

Al centro della ruota, attorno ad un albero (non sempre raffigurato) che simboleggia l’asse del mondo, tre animali rappresentano i veleni (tib.: dugsum=cattive bevande) che sono la forza motrice della vita. Il gallo rosso della «collera», cioè dell’avversione agli altri uomini, il serpente verde del «desiderio», ovvero tutti i sentimenti che esprimono cupidigia e brama di possesso, il grigio maiale dell’«ignoranza». I tre animali si mordono la coda: il ciclo dell’«ego», con le sue forze dinamiche, muove tutta la vita.

Segue una fascia, separata idealmente o graficamente in due parti, dove gli uomini felici si elevano per poi ricadere nudi e disperati; un ammonimento a non disperdere i meriti acquisiti.

Il terzo cerchio è suddiviso in sei parti, i sei regni dell’esistenza (skt.: loia). In alto le tre esistenze possibili di miglior condizione: dei, semidei ed uomini. Gli dei, al centro, con Avalokiteshvara che sotto forma di un Buddha bianco predica loro la meditazione (sillaba Lha). Gli asura o semidei (Lhamayin), titani in perpetua guerra con gli dei. Ad essi Avalokiteshvara (verde) intima di cessare ogni ostilità e predica l’elevazione morale; mentre, raffigurato in giallo, egli predica la rinuncia (mi) agli uomini di ogni condizione sottoposti alle conseguenze della cupidigia.

Nel settore inferiore abbiamo il mondo degli animali  (dundo) ai quali un Buddha blu viene a predicare la conoscenza essendo loro prerogativa scontare il peccato d’ignoranza; nel mondo degli esseri miserabili (skt.: preta, tib.: yidak) si soffre una sete ed una fame inestinguibili, ad essi Avalokiteshvara porta un vaso di nettare, cibo degli dei, per insegnare la generosità.

In ultimo il mondo degli inferi dove i dannati soffrono i supplizi. In genere vi è raffigurato anche Yamantaka che brandisce lo specchio della conoscenza, egli è Singge Chosgyal (re della legge) e lo ricorda sostenendo una bilancia. Ma anche qui può essere presente Avalokiteshvara, che in nero porta acqua a chi brucia. Il Buddha della misericordia può anche non essere raffigurato, ma ormai ben pochi artisti disegnanano i nuovi affreschi seguendo la iconografia tradizionale.

 La parte più esterna del cerchio è costituita da una corona circolare nella quale sono inserite dodici figure che rammentano al fedele il funzionamento delle «dodici cause interdipendenti» (skt. nidana) cioè la catena di casualità, che con logica implacabile costituisce e determina l’esistenza di ogni individuo. Le figure raccontano come si forma un essere e sono, in genere, allusioni dirette a parabole della vita di Buddha.

Abbiamo così il cieco, simbolo della ignoranza e della non conoscenza che sono le cause prime del ciclo della reincarnazione; il vasaio, che ricorda il configurarsi impulsivo ed elementare della psiche; la scimmia, inizio dell’esperienza cosciente e della scoperta del mondo esterno; due uomini in barca, distinzione fra io e non-io; la casa a sei finestre, o sei case, raffigurano l’uso dei cinque sensi e dell’intelletto, considerato il sesto; la coppia abbracciata, esperienza sensibile e sensazione; un uomo accecato da due frecce, il piacere ed il dolore che sono conseguenza della sensazione; l’uomo che beve simboleggia il desideri o del piacere; la scimmia od un uomo, nell’atto di cogliere i frutti da un albero, parlano del desiderio che si trasforma in avidità; una donna incinta o l’amplesso di una coppia ricorda come dall’attuale esistenza nasce la seguente reincarnazione; il parto, la rinascita è la conseguenza logica della vita precedente; ed infine un vecchio od un cadavere, la vecchiaia e la morte sono infatti l’unica conseguenza della nascita.




[1] Un formidabile manuale, schematico ed esaustivo, arricchito da un ricchissimo apparato fotografico è il catalogo curato da G. Essen - T.T. Thingo, Die Gotter des Himalaya, Munchen 1989.

[2] Nei vari conventi che ho visitato in Himàlaya, spesso i monaci sono venuti a consulto fra loro, talvolta appellandosi a qualche lama più anziano, per fornirmi una risposta. Raramente le versioni sui nomi concordavano. Il nome in sé non è certo importante anche perché le raffigurazioni dei Gyalchen deshi sono sempre stereotipate, volti inespressivi su uno svolazzo di colori, ma l’incertezza dei monaci è segno del decaduto e scomparso interesse dei religiosi per gli strumenti più semplici e comuni delle loro pratiche rituali.


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22 settembre 2001
   

Kathmandu