di Luciano Berti
L'unica vera sopravvivenza della originale religiosità dei popoli indo-europei potrebbe essere questa, rappresentata da poche centinaia di fedeli, miseri pastori e contadini sperduti fra le vette del Paropàmiso
Giungiamo a Ronbur nel primo pomeriggio. Subito il capogruppo ed io, con l'aiuto del manager del Kalash Hilton Hotel che svolge la funzione di interprete, andiamo a conferire con il capo della polizia di confine, mr. Abdul Askur. Mostriamo il permesso rilasciato dal Deputy Chief Commissioner di Chitral. Dapprima mr. Askur sostiene che è vietato salire in montagna perché ci sono i mujaidin e che ha disposizioni in tal senso. C'è una fascia di dieci chilometri vietata ai turisti, ma guardando le carte non sembrerebbe che il nostro percorso la attraversi. Sorge un'altra difficoltà: la strada è interrotta. In effetti un sentierino che risale la valle è interrotto poco dopo il villaggio ma è quello che conduce a Baram Chasma e non a Bumburet. Alla fine gli uomini presenti alla discussione comprendono che li assumeremo come portatori e tutto si risolve.
Posso così raggiungere il gruppo che è salito ad un luogo di culto, il tempio maschile di Mahandeo, che sovrasta il villaggio: un altare, una serie di assi scolpite e tre maschere sovrastano un piccolo fuoco. E' un altare fatto di pietre incassate, irto di rami secchi di agrifoglio, macchiati dai precedenti sacrifici. Due piccole teste di cavallo confermano il carattere sacro del luogo, delimitato da una fila di pali sopra i quali sono scolpiti degli svolazzi, delle spirali, dei disegni dal tema apparentemente solare ma il cui significato si è cancellato dalle memorie. Il luogo è interdetto per le donne. L'impurità che la mestruazione rende inerente alla condizione femminile proibisce l'accesso ai santuari ed a tutto ciò che è in rapporto con il culto. E' per la medesima ragione che, fin dalla loro pubertà, le donne trascorrono cinque giorni al mese, e ventun giorni dopo ogni parto, nella ashali (o bashali), una casa dove esse vivono isolate ed intoccabili.
Ed è il manager dell'hotel che ancora una volta ci viene in aiuto. Egli ha lavorato a lungo con gli antropologi francesi che han vissuto in queste valli. Il suo racconto è affascinante e ricco di suggestione. Sa cosa raccontare e cosa gli stranieri vogliono che sia loro raccontato.
Il fuoco di un lume a petrolio illumina il suo volto mentre in lontananza il canto delle donne, raccolte in una casa crea echi e suggestioni. E' una storia di riti e di leggende:
«Verso la fine d'autunno, gli anziani osservano ogni giorno il tramontare del sole sulla montagna, l'ultima parte che illumina con la sua luce prima di scomparire. La sera in cui i raggi dell'astro raggiungono un albero di riferimento, sua casa d'inverno, là in alto sulla collina, preavvisano noi, abitanti della valle di Rumbur, che s'avvicina la festa. Tutti i Kalash cominciano allora a fare il conteggio delle giornate. Ciascuna porta un nome, legato ai riti purificatori da effettuare prima della venuta del dio Balumain, che arriva nella notte più lunga e riparte quando il giorno cresce di nuovo e il chiaro ha il sopravvento sull'oscurità».
Mentre il nostro anfitrione racconta e ci fa sognare questo solstizio d'inverno, il mio pensiero si perde in considerazioni e fantasie. Penso che senza questo lungo scenario rituale che si snoda durante quasi tutto il mese di dicembre, la tradizione, la cultura Kalash non avrebbero potuto resistere, dopo dieci secoli, al fronte dell'Islam. Kalash significa «uomo». Ma i mussulmani chiamano i Kalash «Kafir», cioè pagani, infedeli. Per loro, non sono che una piccola comunità di idolatri, che innalzano statue ai loro morti, bevono vino, cantano e danzano, uomini e donne, al suono dei tamburi, in occasione dei funerali o per celebrare il passaggio delle stagioni, tutte cose che i credenti respingono. Infatti tutta la regione dell'Hindu Kush, questo groviglio di sommità scoscese e di valli strette che attraversa la frontiera afghano-pakistana, era un tempo popolata da tribù refrattarie all'Islam e che praticavano, come i Kalash, una religione politeista. In quei tempi si chiamava Kafiristan (terra dei pagani). Dopo la conversione forzata dei suoi abitanti, il paese è stato ribattezzato Nuristan (terra delle luci dell'Islam). Solo alcuni Kalash rifuggiatisi nelle tre strette valli, dalla parte pakistana, sono rimasti attaccati alle antiche tradizioni, venute, si suppone, con gli Indo-Europei, arrivati in queste contrade più di tremila anni fà. E' là, in effetti, principalmente sulle colline di ciò che oggi è l'Afghanistan orientale, che questi lontani antenati scelsero di stabilirsi.
I capelli, sovente biondi, dei bambini, i loro occhi chiari, provano che la mescolanza etnica era, presso i Kalash, molto debole. Si trattava d'uno straordinario caso di preservazione che il solo isolamento geografico non era più sufficiente a spiegare. L'identità kalash è minacciata dal fanatismo dei mollah. L'arrivo nella regione di rifugiati afghani, integralisti convinti, accentua la pressione religiosa su questo piccolo gruppo di paganesimo in terra islamica. Non è lontano il momento in cui trionferà una cultura risultante dall'irruzione nel loro mondo di nozioni e costumi moderni, della rupia pakistana, dei beni di consumo, del turismo nascente.
Pochi stranieri hanno assistito ai sacrifici d'autunno, destinati a ringraziare gli dei per il buon ritorno delle mandrie dopo i mesi di transumanza, e per l'abbondanza del raccolto, ben riposto alla vigilia dell'inverno. Per questo la testimonianza del nostro anfitrione è interessantissima per noi tapini che possiamo usufruire di ferie solo in agosto.
Le preghiere e le offerte effettuate in questa occasione segnano la fine dell'anno vecchio. Queste cerimonie l'allontanano in qualche maniera, con tutte le sue impurità e facilitano con le stesse la venuta, al momento del solstizio d'inverno, di colui che spande la fertilità e l'abbondanza sotto gli zoccoli del suo cavallo, il dio Balumain.
«Noi Kalash crediamo anche in un dio creatore, Khodai, dio del cielo, che si può raggiungere solo attraverso la mediazione degli dei messaggeri. Solo essi sono oggetto di culto, di offerte e di sacrifici, perchè le loro preoccupazioni, i loro compiti li avvicinano alle nostre cure quotidiane di agricoltori e di allevatori, coscente che la sua sopravvivenza dipende dalle buone relazioni con le forze della natura. Gli dei si esprimono, all'occasione con la voce del déhar, un uomo dotato del potere d'interpretare, in trance, la loro parola e la loro volontà. Le rivelazioni dei déhar nel corso dei sacrifici, hanno indirizzato la storia del mio popolo. Esse hanno forgiato, consolidato, definito il diritto della consuetudine. E' il più celebre fra loro, Naga Dehar, che incontrò un giorno Balumain sul suo cavallo (animale divenuto, poi, simbolo della divinità), è a lui che il dio dettò i suoi desideri per l'organizzazione della sua venuta annuale. «Il dio ama la luce» disse e così il giorno delle prime offerte, agli inizi di dicembre, grandi bracieri vengono accesi, calata la notte, sulle aie dove si danza. E da ogni granaio escono riserve di frutta, more bianche seccate, giuggiole, noci, che si mettono in comune. Subito la festa si avvia nella prodigalità per scongiurare l'angoscia dell'inutile dell'inverno. E' un modo di annunciare che si ha confidenza con gli dei affinchè favoriscano la resurrezione della natura. Gli uomini danzano, lanciando enormi scoppi di risa, dondolandosi imitando i movimenti d'un cavaliere, in onore del dio e della sua cavalcatura».
Una sorta di psicodramma liberatorio, direbbe uno specialista di cultura occidentale, destinato ad eliminare ogni anno le inevitabili impurità secrete da un gruppo umano molto ridotto e che vive nella promiscuità. Avviene sempre che, per due settimane, uomini e donne inveiscano fra di loro, si beffeggino con forza e con gesti, simulazioni e danze senza equivoco. «In sette giorni arriva il tempo dell'astinenza amorosa - cantano le donne - Il mio sesso sarà incollato al cavallo. Oh fratello mio, bisogna sbrigarsi a ricongiungersi.»
L'indomani, é fra le giovinette e le adolescenti, delle due parti della vallata, quella a monte e quella a valle, il far finta di bisticciare cantando e danzando. Le une sulla riva sinistra, le altre sulla riva destra del torrente, dal levare del sole fino al tramonto, si disputano sopra le acque la gloria della beffa più pesante, dell'allusione più malevole o più ricca di sottintesi. Ed il giorno dopo le ragazze faranno bollire fagioli per tutti negli immensi paioli. Anche ciò fa parte dei rituali: la simulazione dell'ostilità deve essere compensata dalla generosità, al fine di stabilire un equilibrio nei loro rapporti.
Un'altro rito importante è quello del banchetto degli antenati, altrimenti detto, le «offerte agli spiriti dei morti». Ognuno porta quello che ha di più delicato; quello che gli è più caro da donare: le pere condite, le migliori more, le uve, i rari melograni, le zucche così apprezzate, l'indispensabile formaggio saporito. Tutto è deposto in una gerla davanti alla casa delle cerimonie. Una volta ottenuto il loro accordo tutto cade in uno stato di letargo. Le anime dei morti sono ripartite.
Infine arriva il giorno grande pulizia. I vestiti sono lavati. La più piccola macchia viene cancellata. Le stesse case sono integralmente sgomberate, spruzzate dal suolo al soffitto, innaffiate e purificate con il fuoco di ginepro. Questo rito precede il ditch, periodo d'astinenza sessuale. Al suo avvicinarsi le immaginazioni si infiammano.
Le donne e gli adolescenti sono i primi ad adempiere il loro rito di purificazione. Per accogliere il dio, i pastori hanno scelto i loro più bei caproni e ornate le corna di fronde di ginepro. Li conducono in corteo verso l'alto della valle, al santuario più sacro. Gli uomini del villaggio prendono posto davanti all'altare massiccio (proprio quello visitato da noi al tramonto).Alcuni maestri di cerimonia, scelti per la loro conoscenza della tradizione, vestiti con lunghe vesti dai motivi dorati, salmodiano il canto di Balumain, le cui parole non devono essere pronunciate per tutto il resto dell'anno. Le donne da larghi scialli di lana superbamente ricamati, con piume di pavone trapuntate sulla loro cuffia, aspettano l'uscita dell'ultimo uomo dal villaggio. Resteranno là tutta la mattina, a danzare, ad evocare con i loro movimenti l'atto sessuale senza avvicinarsi all'altare che è tabù.
Molti bambini avendo raggiunto i sette anni, durante l'anno, vengono iniziati, vale a dire promossi dallo stato di fanciullo a quello di pastore. Ciò li autorizza a vestirsi come gli adulti: larghi pantaloni di lana, fasce alle gambe, camicia bianca sulla quale si staccano due file di perle incrociate come delle cartucciere e, soprattutto, il turbante bianco. Quest'ultimo, simbolo di passaggio, rende materiale la loro entrata nel mondo degli adulti. Lo ritroveranno all'ultimo viaggio, sul loro letto di morte.
«Essere pastore, vale a dire, capo delle capre, è ben prezioso per tutti, è lo scopo, la fierezza, il piacere di ogni Kalash di sesso maschile <197>continua il nostro ospite mentre la notte avanza ed il plenilunio innonda la valle<197> I suoi migliori momenti li passa d'estate sui pascoli, nella solitudine degli alti colli, a mungere le sue capre, a preparare il formaggio. O l'inverno a guidare tutti i giorni la mandria verso i vicini pendii malgrado il freddo e la neve. Questo universo virile esclude l'artigianato, considerato come impuro, e non si occupa, se non con reticenza, dell'agricoltura, lasciata alle donne. L'uomo è sempre stato guerriero, cacciatore o allevatore. Ma, ai nostri giorni non ci sono più lotte. I Pakistani preferiscono utilizzare altri mezzi, come il ricatto invece che la conversione, la paura delle malattie, i debiti, per spezzare la resistenza di questi pagani intransigenti. La caccia è stata proibita. I mufloni, i leopardi delle nevi, gli orsi e le pernici sono del resto in via d'estinzione. Non resta dunque che l'allevamento delle capre e dei caproni. Il numero delle bestie di ciascuna mandria determina la fortuna del suo proprietario, la cui generosità la si vede manifestare nell'organizzare i funerali, nel restaurare un santuario, o ancora nel dare delle feste il cui splendore, divulgato ulteriormente dalla tradizione orale, rinforzerà il suo prestigio. Il bestiame è altresì il principale valore di scambio per tutto ciò che è materiale con i fornitori mussulmani: fabbri, falegnami e mercanti».
E così scopriamo che questi pastori ogni tanto fanno grandi scorpacciate di carne. All'indomani dell'ecatombe propiziatoria i fedeli ritornano al santuario per lanciare sull'altare altrettante fronde di salice che hanno gli uomini nella vallata. E' un modo di dire al dio Balumain, prima della sua dipartita, la sera, che tutti, senza eccezzione, gli sono devoti. Mentre la giornata trascorre, la frenesia della gioventù si accresce. La revoca dell'interdizione sessuale è prevista per il giorno in cui la carne sarà esaurita, quando non resterà altro che far cuocere le teste e i piedi degli animali.
Il tempo del chaumo (chowmas) al solstizio d'inverno pone fine alla notte del Corvo bianco, l'uccello incaricato dagli dei di portare al cielo i desideri della comunità. Aspettando che questi voti siano esauditi i Kalash si preparano a trascorrere l'inverno fino alla prossima grande festa, il jyoshi, in primavera.
I Kalash detestano la cattiva stagione, il freddo e soprattutto la neve che ricopre il loro paese a causa, essi credono, della balordaggine di una donna. La prima volta che nevicò sul mondo, dice in effetti la leggenda non era vera neve che cadde dal cielo, ma formaggio bianco. Ciascuno approfittò di questa manna pensando che si trattasse pressapoco di un dono miracoloso ed unico. Pertanto l'anno seguente, cadde ancora del formaggio fresco. Ma una donna che cercava qualche cosa di adatto per asciugare il proprio bambino, prese uno strato di formaggio e se ne servì per il suo bisogno. Offuscati da tanta disinvoltura, gli Dei trasformarono il formaggio in neve. Da allora, ogni anno, con essa vengono il freddo e l'intemperia.
Siamo rimasti in pochi ad ascoltare l'interminabile lezione di antropologia, è quasi l'alba quando, sciolta la compagnia, raggiungo il mio sacco lenzuolo e mi addormento sulla veranda.
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