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Ladakh |
il
paese degli alti valichi
di Marco Vasta |
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Espressioni artistiche
del Vajrayana
Le rappresentazioni di
Buddha
Siddhartha Gotama Buddha
inizia ad essere rappresentato antropomorficamente solo verso l'inizio
della nostra era. All'inizio era raffigurato in piedi. Poi si iniziò
a rappresentarlo nella posizione classica del fior di loto. Sakyamuni ed
i dodici episodi della sua vita formano un tema caro ai pittori, in genere
il Buddha storico viene raffigurato seduto nella posizione adamantina,
la mano sinistra in grembo che sostiene la coppa delle elemosine mentre
la mano destra distesa in basso tocca la terra, chiamata a testimoniare
l'avvenuta illuminazione. In ogni caso Siddhartha indossa la tunica senza
maniche dei monaci questuanti ed è privo di ornamenti.
Gli Adi-Buddha sono
rappresentati seduti, con la corona di gioielli e la veste di giovane principe
indiano, reggono la folgore e la campanella nell'atteggiamento detto vajra-um-kara.
Solo la posizione delle mani differisce fra Vajradhara e Vajrasattva.
Samantabhadra è invece rappresentato completamente nudo, di un color
azzurro cupo.
I Buddha Supremi
In primo luogo figurano
i cinque Buddha Supremi, (skt. Jina o Thathagata) che partecipano del
Dharma-kaya, la sfera suprema ed essenziale della legge. Presso alcuni
studiosi sono indicati come i Buddha della Meditazione (skt. dhyani
- Buddha) ma il termine è usato impropriamente. I cinque Jina (tib.
Gyalwa Rigna=vittoriosi) regnano sull'universo e quindi anche sulle due
sfere sottostanti del Sambogha-kaya e del Nirmana-kaya, dove si ripresentano
con altri nomi.
I cinque Jina sono
identificabili per colori e per determinati attributi o veicoli che possono
comparire anche da soli a simboleggiare la divinità. Ognuno dei
cinque Tathagata presiede ad una delle direzioni alle quali va aggiunto
il centro (Queste pentadi non sono da confondere con i quattro re-guardiani
delle quattro direzioni cardinali posti all'ingresso delle sale di culto).
Quando sono rappresentati
in atteggiamento antropomorfo sono disegnati scolpiti o modellati nella
posizione yoga del loto o diamante (padmasana), con le gambe incrociate
ed ambedue le palme dei piedi rivolte in alto formando un gigantesco loto,
simbolo della coscienza illuminata. In questa posizione i Jina indossano
la veste monastica ed hanno una capigliatura raccolta e sormontata da un
ciuffo di capelli (skt.: ushnisha) caratteristico di Buddha.
I mudra dei Buddha supremi
Ognuno di essi rispetta
il codice gestuale che gli è proprio e che simboleggia il mudra,
cioè l'attitudine attribuitagli. Le mani all'altezza del cuore di
Vairocana «fan girare la ruota della legge» nel gesto tipico
dell'insegnamento. Con le mani appoggiate l'una sull'altra all'altezza
dell'addome e le palme rivolte in alto i pollici che si toccano formando
un ovale, Amitabha rivela l'attitudine alla meditazione. La mano destra
di Amoghasiddhi all'altezza del cuore con la palma rivolta in avanti significa
benedizione e protezione (mudra «dell'argomento»). Con la destra
che tocca il suolo e la sinistra a palma rivolta all'interno appoggiata
sul grembo, Akshobya «prende la terra a testimone» e
ricorda l'episodio storico nel quale Sakyamuni si accinse ad intraprendere
una nuova vita. Infine Ratnasambhava tiene la mano destra in avanti per
indicare la generosità ed il distacco, fondamentali in ogni rinascita
spirituale.
I cinque dhyani-Bodhisattva
Nella sfera del Sambhoga-kaya
ecco i Bodhisattva, emanazione dei Jina dai quali derivano attributi ed
attitudini. Se i Thathagata sussistono come pura astrazione e meditazione,
i Bodhisattva ne sono il corpo perfetto e mediano fra il mondo dell'assoluto
e quello di noi mortali.
Nelle raffigurazioni
i Bodhisattva si distinguono nettamente dai Jina poiché sono rivestiti
da paramenti differenti: vesti suntuose, immagine di dignità, una
corona a cinque punte, simbolo della realizzazione dei cinque aspetti della
saggezza ed i sei preziosi ornamenti, oggetti simbolo della realizzazione
delle sei virtù trascendentali del Paramita (pazienza, generosità,
purezza d'intenzione, compassione, distacco, saggezza). Nel loro aspetto
pacifico, meditativo e benevolo, essi siedono al centro del cuore di un
fiore di loto nella posizione adamantina della meditazione (padmasana),
quando sono raffigurati nell'aspetto terrifico e battagliero assumono un
atteggiamento dinamico che è molto coreografico. La corona è
formata da cinque teschi, sono circondati da un'aureola di fiamme simbolo
di forza ed energia, camminano sul cadavere dell'ego addobbati con ossa
e scatole craniche e bevono il sangue, impugnando micidiali armi di ogni
tipo.
Manjushri è
strettamente legato od addirittura sostituisce Samantabhadra, spesso cavalca
come veicolo un elefante, simbolo della coscienza pacifica. Egli regge
un libro ed impugna una spada, simbolo della saggezza che taglia l'ignoranza.
Il Bodhisattva maggiormente rappresentato è Avalokiteshvara, il
signore che guarda verso il basso (con compassione) chiamato anche Padmapani
(portatore del loto, tib.: Chenrezi), che impersona il principio dinamico
della compassione. Nella tradizione assumerebbe addirittura ben centotto
forme differenti, ma nell'iconografia è più semplicemente
rappresentato in due o tre forme: con undici visi (Chukchiggyal), con quattro
paia di braccia (Tugse chenpo) oppure con una raggiera formata da mille
braccia, mille mani recanti mille occhi.
Vajrapani (skt.: il
portatore del fulmine) nell'aspetto terrificante danza fra mille fiamme
ed impugna il fulmine oppure un serpente, attributi simboleggianti i mezzi
idonei a conseguire l'illuminazione.
I cinque Manushi-Buddha
I Buddha umani, che appaiono
nel mondo contingente e tangibile, il Nirmana-kaya. Essi hanno avuto od
avranno un corpo umano e con la loro presenza segnano l'inizio di una nuova
era. Fra essi compaiono il principe Gotama, venerato come Sakyamuni, e
Maitreya il Buddha della prossima era. Il loro numero varia, secondo
i sistemi, da cinque a sette e sono rappresentati nella posizione del loto,
escluso il Buddha futuro che è in genere raffigurato in piedi o
seduto all'occidentale.
Divinità femminili,
demoni protettori e santi
La più popolare
delle divinità femminili, venerate per se stesse o perché
emanazione (shakti) di uno dei vari esseri illuminati, è Tara (tib.:
Dolma) che è l'archetipo della gran madre e come tale è incarnazione
della misericordia e della protezione. Associata a Maitreya od ad altri
Buddha, essa assume talvolta numerose forme, venti secondo alcune scuole,
centootto secondo altre. Più sovente si ha la distinzione fra Tara
bianca e Tara verde (tib.: Dolma Doljan e Dolma Dolkar), che si sarebbero
incarnate nelle principesse Wengchen, cinese, e Brikuti, nepalese, mogli
di sRrong-bTsang-Gampo, primo sovrano buddhista del Tibet. Le due raffigurazioni
ricordano l'incontro fra Mahayana indiano e cinese nel concilio indetto
dal re a Lhasa.
Ad ogni Buddha sono
state associate delle Shakti: ognuna di esse è la personificazione
dei vari modi in cui si esprime la conoscenza. Oltre a queste divinità
femminili ve ne sono altre che pur non raggiungendo l'importanza delle
shakti occupano il rango di divinità minori. Esse sono le dakini
(tib.: khadongma) considerate protettrici della legge al pari dei loro
omologhi maschili dharmapala (skt.: custodi della legge; tib.: chos-kyong).
Queste divinità appaiono sempre nel loro aspetto terrificante, come
si conviene a chi deve combattere contro i nemici della legge. Fra i più
famosi Yamantaka, Mahakala, Dukör. Fiamme, spade, occhi orripilanti
ed altri atteggiamenti che incutono terrore sono i loro strumenti per spaventare
il nemico; ogni oggetto simboleggia un mezzo di elevazione spirituale e
serve metaforicamente a combattere un nemico che non è fisico ma
è una delle passioni che accendono il nostro animo legandolo al
samsara. Di aspetto mezzo animalesco e mezzo umano esse costituiscono una
ulteriore impressionante schiera di esseri del pantheon himalayano nel
quale vanno annoverate anche tutte le piccole divinità locali (tib.:
yul-lha) che proteggono passi, fiumi, montagne, campi e villaggi. E’attraverso
queste divinità tutelari che il mondo del soprannaturale, le credenze
della religione Bön e le leggende create dagli sciamani si sono integrate
nel Vajrayana. Esse completano lo stuolo di esseri ai quali il fedele eleva
la sua richiesta di protezione ed aiuto nella lotta continua contro la
montagna alla quale deve strappare lo spazio per sopravvivere.
I guardiani delle quattro
direzioni
I re delle direzioni dello
spazio (tib.: Gyalchen deshi; skt:. Lokapala) sono mitiche deità
minori del pantheon lamaista ma li ritroviamo già nei più
antichi documenti conosciuti che raccontano la leggenda di Buddha. In Himàlaya
vengono rappresentati come guerrieri, secondo il modello dell'Asia centrale,
e ciascuno è riconoscibile grazie ai colori ed agli oggetti a lui
attribuiti. I Gyalchen Deshi vengono riprodotti sulle pareti dei loggiati
antistanti i Dukang.
Vishravana (tib:.
Nam Those), protettore degli yak, guardiano del nord è giallo, immagine
della vegetazione che muore, tiene lo stendardo con la destra ed una mangusta
con la sinistra, presiede alla frontiera fra il manifesto ed il non manifesto.
Il bianco, colore dell'alba e della «chiara luce» (tib.: odsel)
è l'attributo di Dhritarashastra (tib.: Yul Khorsung), re dei musici
celesti (tuono ecc.), guardiano dell'est e della frontiera fra la nascita
e la morte, che stringe in grembo un liuto. Virudhaka (tib.: Phak Hyapo),
sovrano degli spiriti maligni, è verde, colore simbolo di lussuria
e vitalità, guardiano del sud e della frontiera fra l'immortalità
e l'esistenza condizionata dal passare del tempo, egli ha per simbolo la
spada e sul capo, al posto dell'elmo porta talvolta la pelle d'una testa
d'elefante. Infine ecco re Virupaksha (tib.: Mig Midog), con il corpo rosso,
re dei Naga e guardiano dell'ovest, della frontiera fra essere e non-essere,
regge in mano un piccolo chorten. I nomi dei quattro guardiani, qui trascritti
in sanscrito, sono difficilmente riconducibili singolarmente ad un medesimo
nome tibetano (Nei vari conventi che ho visitato in Himàlaya, spesso
i monaci sono venuti a consulto fra loro, talvolta appellandosi a qualche
lama più anziano, per fornirmi una risposta. Raramente le versioni
sui nomi concordavano. Il nome in sé non è certo importante
anche perché le raffigurazioni dei Gyalchen deshi sono sempre stereotipate,
volti inespressivi su uno svolazzo di colori, ma l'incertezza dei monaci
è segno del decaduto e scomparso interesse dei religiosi per gli
strumenti più semplici e comuni delle loro pratiche rituali).
Padma
Sàmbhava
Accanto agli esseri divini
ed alle personificazioni degli elementi della dottrina abbiamo anche tutta
una fila di figure leggendarie del Buddhismo e le innumerevoli enumerazioni
dei maestri e dei santi dei vari ordini. Il santo più importante
è sicuramente Padma Sàmbhava, portatore del Buddhismo in
Himàlaya. Le sue raffigurazioni si riconoscono subito per l'abbigliamento
principesco e per il caratteristico cappello che tiene in capo. Inconfondibili
sono i baffetti ed il pizzo a mosca. Nella mano destra impugna il vajra
e con la sinistra sorregge il cranio-coppa (kapala); appoggiato ad un fianco
tiene il khatvanga con crani e teschi umani. Nelle statue riproducenti
il prezioso maestro, ma anche in quelle degli altri guru e grandi lama,
si noterà che essi indossano numerosi abiti: una veste bianca che
rappresenta il Vajrayana, poi l'abito da monaco dell'Hinayana, ed il tutto
è quasi coperto da una cappa azzurra, da un mantello arancione e
da un cappello che indicano la pratica del Mahayana. Padma Sàmbhava
è talvolta affiancato dalle due mitiche mogli.
I quattro mahasidda
Ogni chiesa pone i propri
maestri, lama ed abati ad un rango così elevato da esser spesso
pari ai vari Buddha del Vajrayana. I quattro mahasidda occupano un posto
di preminenza nei templi dei Kagyupa. In virtù delle loro capacità
di yogi essi si distinguono nettamente nell'iconografia ufficiale differenziandosi
dai maestri successivi per la lunga capigliatura e per l'assenza della
cuffia liturgica. Riallacciandosi all'episodio storico in cui il mahasidda
Tilopa resuscitò alcuni pesci, il codice rappresentativo lo raffigura
assieme ad uno di questi animali; il suo eminente discepolo Naropa sostiene
con le mani una coppa ricavata da un cranio (tib.: kapala) e lo scettro
tridente su cui sono infilate tre teste umane (tib.: khatvanga) simboli
della vittoria sul mondo delle apparenze. Seduto su una pelle d'animale
e spesso raffigurato all'interno di una caverna, Milarepa porta la mano
destra all'orecchio per «ascoltare il proprio canto interiore»
come racconta la tradizionale raffigurazione di questo squisito poeta tibetano
(Sulla vita del più amato dei santi tibetani consiglio: J. Bacot
(a cura di), Vita di Milarepa, i suoi delitti, le sue prove, la sua liberazione,
ed.it. 1966 ed ovviamente il film Milarepa di Liliana Cavani), ed infine
Marpa di Lhobrang, il traduttore, regge un libro simbolo di erudizione
ed un kapala che indica la capitolazione dell'ego e la realizazione spirituale.
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