I Moghul
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Lo splendore MoghulAgli inizi del 16° secolo la frammentazione dei regni hindu-shai ed il caos giunsero a tal punto che Lahore spalancò le porte in segno di benvenuto quando Babur, re di Kabul (1483-1530), scese in aiuto del governatore della città. La «tigre», discendente da Timur lo zoppo (Tamerlano) per parte di padre e da Gengis Khan per parte di madre, divenne ben presto il primo padishah (imperatore) dei Moghul quando il 21 aprile 1526 si impadronì di Delhi e dei tesori in essa accumulati. Babur non solo era un brillante stratega, ma fu anche poeta d’elevata sensibilità e costruttore appassionato di giardini e fontane. Il suo regno non fu quello di un despota orientale, dalle sue memorie si ricava l’idea di un uomo capace di unire l’ambizione del regno all’umiltà ed i modi raffinati alla capacità di rapide decisioni. Il figlio Humayun, sebbene ne ereditasse la sensibilità, non fu altrettanto deciso nel governare il grande regno. È indicativo della sua personalità il fatto che morì non per veleno, né in battaglia, ma cadendo dal suo osservatorio astronomico. Akbar (lett.: il grande) successe al padre Humayun nel 1555 all’età di soli quattordici anni. Su di lui ebbe un grandissimo influsso Bahram Khan, tutore e reggente, che lo consigliò fino alla maggiore età quando, nel 1560, assunse il comando diretto. In quarantacinque anni allargò i confini dell’impero fino alla baia del Bengala ad oriente ed alla frontiera con la Persia ad occidente. Aveva anche il dominio di gran parte dell’India meridionale, del Kashmir, del Baluchistan e del Sind. Il suo regno fu grande come il suo nome. Akbar salì al trono come devoto musulmano, ma morì in un certo senso eretico. Fu estremamente tollerante verso le altre fedi, ma poi acconsentì che attorno alla sua persona si sviluppasse una forma di culto, si accattivò gli hindu abolendo nel 1562 la maggior parte delle restrizioni loro imposte e successivamente tolse la jiiza (testatico sui non musulmani), abolì la tassa sui luoghi di pellegrinaggio ed inoltre consolidò ed amministrò con giustizia gli immensi territori ampliando i confini dell’impero del nonno Babur. Suo desiderio era che questo culto divenisse una sorta di religione universale che comprendesse le migliori caratteristiche di tutte le altre fedi dell’impero e ciò lo pose in contrasto con i suoi consiglieri. Akbar chiamò questo credo Dine-Ilahi, cioè la fede divina, una fede che ebbe un suo ruolo, seppure di breve durata, nel consolidare l’amministrazione dell’impero. Soldato di genio e audacia, trasformò un semplice punto d’appoggio in India nel controllo di tutto l’Hindustan. Abile diplomatico, strinse trattati con i capi rajput e soprattutto con il sovrano di Jaipur, che divenne suo generale e la cui figlia Jodhai Bai gli diede il primo figlio maschio. Fu un autentico liberale, gran costruttore, amministratore e idealista, e meglio lo si comprende nella capitale da lui creata, Fatehpur Sikri. Promosse tutte le arti: del suo circolo culturale, da lui detto dei “nove gioielli”, faceva parte il musicista Tansen. Aveva una personalità magnetica: i Gesuiti che partecipavano alle sue discussioni teosofiche furono colpiti dagli occhi imperiosi “vibranti come il mare nel sole”. E certo provava sentimenti affettuosi per alcune delle molte mogli: il fascino di Jodhai Bai riuscì a persuadere il re a evitare aglio e cipolla perché “inopportune nel baciare”, a rasarsi la barba e a smettere di mangiare carne di bue molto amata dai musulmani, ma vietata agli Hindu. Alla sua morte, nel 1605, salì al trono il figlio Jeangjir (lett.: conquistatore del mondo), che in ventitré anni di regno si guadagnò la reputazione di re giusto. La saggezza della sua amministrazione, unita alla simpatia che seppe attirarsi dal popolo per alcune infelici storie d’amore vissute in gioventù, ne fanno una delle personalità più amabili fra i Moghul. Nel 1628 sale al trono Shaha Jahan che elimina il fratellastro Shaha Ruar ed ogni altro pretendente. Nonostante il cruento inizio si dimostra un buon sovrano e soprattutto un ottimo mecenate delle arti e dell’architettura. Suoi il forte rosso di Delhi e il Taj Mahal di Agra in memoria della moglie Mumtaz Mahal, forse uno degli edifici più belli al mondo. Il suo regno segnò l’apice dell’impero moghul, le eccedenze economiche dovute alla prosperità furono impiegate per finanziare imprese artistiche. Purtroppo i suoi ultimi anni di regno videro la lotta per la successione scatenatasi fra i quattro figli. Nel 1658 Aurangzeb risultò vincitore e Shah Jahan venne rinchiuso nel forte rosso di Lahore da dove poteva scorgere il mausoleo dell’adorata consorte. Aurangzeb usò il pugno di ferro per governare l’impero. Austero ed intransigente nelle abitudini personali e mussulmano ortodosso nella fede, continuò e rafforzò il ritorno alla fede islamica iniziato dal padre. Di tutti i Moghul, Aurangzeb fu quello che più si avvicinò all’ideale di uno stato islamico in India. Per suo volere una commissione di studiosi compilò un nuovo codice di giurisprudenza attinente alle condizioni di vita del tempo. La sua interpretazione dell’ortodossia si tradusse in uno scarso interesse per le arti, ciò nonostante lasciò alcune bellissime opere architettoniche come la moschea Badshahi di Lahore, con un cortile che allora era il più grande del mondo. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1707, l’impero iniziò un rapido declino. Sebbene i Moghul conservassero nominalmente il controllo di parte dell’India fino alla metà del 19° secolo, i vari imperatori non riacquistarono mai la dignità e l’autorità di un tempo ed il loro declino consentì lo sviluppo di nuovi influssi sul subcontinente.
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