Ladakh

il paese degli alti valichi 
di Marco Vasta
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questa pagina che leggi è basata sulla edizione 1988

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Espressioni artistiche del Vajrayana
Le rappresentazioni di Buddha

Siddhartha Gotama Buddha inizia ad essere rappresentato antropomorficamente solo verso l'inizio della nostra era. All'inizio era raffigurato in piedi. Poi si iniziò a rappresentarlo nella posizione classica del fior di loto. Sakyamuni ed i dodici episodi della sua vita formano un tema caro ai pittori, in genere il Buddha storico viene raffigurato seduto nella posizione adamantina, la mano sinistra in grembo che sostiene la coppa delle elemosine mentre la mano destra distesa in basso tocca la terra, chiamata a testimoniare l'avvenuta illuminazione. In ogni caso Siddhartha indossa la tunica senza maniche dei monaci questuanti ed è privo di ornamenti. 
Gli Adi-Buddha sono rappresentati seduti, con la corona di gioielli e la veste di giovane principe indiano, reggono la folgore e la campanella nell'atteggiamento detto vajra-um-kara. Solo la posizione delle mani differisce fra Vajradhara e  Vajrasattva.  Samantabhadra è invece rappresentato completamente nudo, di un color azzurro cupo. 

I Buddha Supremi

In primo luogo figurano i cinque Buddha Supremi, (skt. Jina o Thathagata) che partecipano del  Dharma-kaya, la sfera suprema ed essenziale della legge. Presso alcuni studiosi sono indicati come i Buddha della Meditazione (skt.  dhyani - Buddha) ma il termine è usato impropriamente. I cinque Jina (tib. Gyalwa Rigna=vittoriosi) regnano sull'universo e quindi anche sulle due sfere sottostanti del Sambogha-kaya e del Nirmana-kaya, dove si ripresentano con altri nomi. 
I cinque Jina sono identificabili per colori e per determinati attributi o veicoli che possono comparire anche da soli a simboleggiare la divinità. Ognuno dei cinque Tathagata presiede ad una delle direzioni alle quali va aggiunto il centro (Queste pentadi  non sono da confondere con i quattro re-guardiani delle quattro direzioni cardinali posti all'ingresso delle sale di culto). 
Quando sono rappresentati in atteggiamento antropomorfo sono disegnati scolpiti o modellati nella posizione yoga del loto o diamante (padmasana), con le gambe incrociate ed ambedue le palme dei piedi rivolte in alto formando un gigantesco loto, simbolo della coscienza illuminata. In questa posizione i Jina indossano la veste monastica ed hanno una capigliatura raccolta e sormontata da un ciuffo di capelli (skt.: ushnisha) caratteristico di Buddha. 

I mudra dei Buddha supremi

Ognuno di essi rispetta il codice gestuale che gli è proprio e che simboleggia il mudra, cioè l'attitudine attribuitagli. Le mani all'altezza del cuore di Vairocana «fan girare la ruota della legge» nel gesto tipico dell'insegnamento. Con le mani appoggiate l'una sull'altra all'altezza dell'addome e le palme rivolte in alto i pollici che si toccano formando un ovale, Amitabha rivela l'attitudine alla meditazione. La mano destra di Amoghasiddhi all'altezza del cuore con la palma rivolta in avanti significa benedizione e protezione (mudra «dell'argomento»). Con la destra che tocca il suolo e la sinistra a palma rivolta all'interno appoggiata sul grembo,  Akshobya «prende la terra a testimone» e ricorda l'episodio storico nel quale Sakyamuni si accinse ad intraprendere una nuova vita. Infine Ratnasambhava tiene la mano destra in avanti per indicare la generosità ed il distacco, fondamentali in ogni rinascita spirituale. 

I cinque dhyani-Bodhisattva

Nella sfera del Sambhoga-kaya ecco i Bodhisattva, emanazione dei Jina dai quali derivano attributi ed attitudini. Se i Thathagata sussistono come pura astrazione e meditazione, i  Bodhisattva ne sono il corpo perfetto e mediano fra il mondo dell'assoluto e quello di noi mortali. 
Nelle raffigurazioni i Bodhisattva si distinguono nettamente dai Jina poiché sono rivestiti da paramenti differenti: vesti suntuose, immagine di dignità, una corona a cinque punte, simbolo della realizzazione dei cinque aspetti della saggezza ed i sei preziosi ornamenti, oggetti simbolo della realizzazione delle sei virtù trascendentali del Paramita (pazienza, generosità, purezza d'intenzione, compassione, distacco, saggezza). Nel loro aspetto pacifico, meditativo e benevolo, essi siedono al centro del cuore di un fiore di loto nella posizione adamantina della meditazione (padmasana), quando sono raffigurati nell'aspetto terrifico e battagliero assumono un atteggiamento dinamico che è molto coreografico. La corona è formata da cinque teschi, sono circondati da un'aureola di fiamme simbolo di forza ed energia, camminano sul cadavere dell'ego addobbati con ossa e scatole craniche e bevono il sangue, impugnando micidiali armi di ogni tipo. 
Manjushri è strettamente legato od addirittura sostituisce Samantabhadra, spesso cavalca come veicolo un elefante, simbolo della coscienza pacifica. Egli regge un libro ed impugna una spada, simbolo della saggezza che taglia l'ignoranza. Il Bodhisattva maggiormente rappresentato è Avalokiteshvara, il signore che guarda verso il basso (con compassione) chiamato anche Padmapani (portatore del loto, tib.: Chenrezi), che impersona il principio dinamico della compassione. Nella tradizione assumerebbe addirittura ben centotto forme differenti, ma nell'iconografia è più semplicemente rappresentato in due o tre forme: con undici visi (Chukchiggyal), con quattro paia di braccia (Tugse chenpo) oppure con una raggiera formata da mille braccia, mille mani recanti mille occhi. 
Vajrapani (skt.: il portatore del fulmine) nell'aspetto terrificante danza fra mille fiamme ed impugna il fulmine oppure un serpente, attributi simboleggianti i mezzi idonei a conseguire l'illuminazione. 

I cinque Manushi-Buddha

I Buddha umani, che appaiono nel mondo contingente e tangibile, il Nirmana-kaya. Essi hanno avuto od avranno un corpo umano e con la loro presenza segnano l'inizio di una nuova era. Fra essi compaiono il principe Gotama, venerato come Sakyamuni, e Maitreya  il Buddha della prossima era. Il loro numero varia, secondo i sistemi, da cinque a sette e sono rappresentati nella posizione del loto, escluso il Buddha futuro che è in genere raffigurato in piedi o seduto all'occidentale.  

Divinità femminili, demoni protettori e santi

La più popolare delle divinità femminili, venerate per se stesse o perché emanazione (shakti) di uno dei vari esseri illuminati, è Tara (tib.: Dolma) che è l'archetipo della gran madre e come tale è incarnazione della misericordia e della protezione. Associata a Maitreya od ad altri Buddha, essa assume talvolta numerose forme, venti secondo alcune scuole, centootto secondo altre. Più sovente si ha la distinzione fra Tara bianca e Tara verde (tib.: Dolma Doljan e Dolma Dolkar), che si sarebbero incarnate nelle principesse Wengchen, cinese, e Brikuti, nepalese, mogli di sRrong-bTsang-Gampo, primo sovrano buddhista del Tibet. Le due raffigurazioni ricordano l'incontro fra Mahayana indiano e cinese nel concilio indetto dal re a Lhasa. 
Ad ogni Buddha sono state associate delle Shakti: ognuna di esse è la personificazione dei vari modi in cui si esprime la conoscenza. Oltre a queste divinità femminili ve ne sono altre che pur non raggiungendo l'importanza delle shakti occupano il rango di divinità minori. Esse sono le dakini (tib.: khadongma) considerate protettrici della legge al pari dei loro omologhi maschili dharmapala (skt.: custodi della legge; tib.: chos-kyong). Queste divinità appaiono sempre nel loro aspetto terrificante, come si conviene a chi deve combattere contro i nemici della legge. Fra i più famosi Yamantaka, Mahakala, Dukör. Fiamme, spade, occhi orripilanti ed altri atteggiamenti che incutono terrore sono i loro strumenti per spaventare il nemico; ogni oggetto simboleggia un mezzo di elevazione spirituale e serve metaforicamente a combattere un nemico che non è fisico ma è una delle passioni che accendono il nostro animo legandolo al samsara. Di aspetto mezzo animalesco e mezzo umano esse costituiscono una ulteriore impressionante schiera di esseri del pantheon himalayano nel quale vanno annoverate anche tutte le piccole divinità locali (tib.: yul-lha) che proteggono passi, fiumi, montagne, campi e villaggi. E’attraverso queste divinità tutelari che il mondo del soprannaturale, le credenze della religione Bön e le leggende create dagli sciamani si sono integrate nel Vajrayana. Esse completano lo stuolo di esseri ai quali il fedele eleva la sua richiesta di protezione ed aiuto nella lotta continua contro la montagna alla quale deve strappare lo spazio per sopravvivere. 

I guardiani delle quattro direzioni

I re delle direzioni dello spazio (tib.: Gyalchen deshi; skt:. Lokapala) sono mitiche deità minori del pantheon lamaista ma li ritroviamo già nei più antichi documenti conosciuti che raccontano la leggenda di Buddha. In Himàlaya vengono rappresentati come guerrieri, secondo il modello dell'Asia centrale, e ciascuno è riconoscibile grazie ai colori ed agli oggetti a lui attribuiti. I Gyalchen Deshi vengono riprodotti sulle pareti dei loggiati antistanti i Dukang. 
Vishravana (tib:. Nam Those), protettore degli yak, guardiano del nord è giallo, immagine della vegetazione che muore, tiene lo stendardo con la destra ed una mangusta con la sinistra, presiede alla frontiera fra il manifesto ed il non manifesto. Il bianco, colore dell'alba e della «chiara luce» (tib.: odsel) è l'attributo di Dhritarashastra (tib.: Yul Khorsung), re dei musici celesti (tuono ecc.), guardiano dell'est e della frontiera fra la nascita e la morte, che stringe in grembo un liuto. Virudhaka (tib.: Phak Hyapo), sovrano degli spiriti maligni, è verde, colore simbolo di lussuria e vitalità, guardiano del sud e della frontiera fra l'immortalità e l'esistenza condizionata dal passare del tempo, egli ha per simbolo la spada e sul capo, al posto dell'elmo porta talvolta la pelle d'una testa d'elefante. Infine ecco re Virupaksha (tib.: Mig Midog), con il corpo rosso, re dei Naga e guardiano dell'ovest, della frontiera fra essere e non-essere, regge in mano un piccolo chorten. I nomi dei quattro guardiani, qui trascritti in sanscrito, sono difficilmente riconducibili singolarmente ad un medesimo nome tibetano (Nei vari conventi che ho visitato in Himàlaya, spesso i monaci sono venuti a consulto fra loro, talvolta appellandosi a qualche lama più anziano, per fornirmi una risposta. Raramente le versioni sui nomi concordavano. Il nome in sé non è certo importante anche perché le raffigurazioni dei Gyalchen deshi sono sempre stereotipate, volti inespressivi su uno svolazzo di colori, ma l'incertezza dei monaci è segno del decaduto e scomparso interesse dei religiosi per gli strumenti più semplici e comuni delle loro pratiche rituali). 

Padma Sàmbhava

Accanto agli esseri divini ed alle personificazioni degli elementi della dottrina abbiamo anche tutta una fila di figure leggendarie del Buddhismo e le innumerevoli enumerazioni dei maestri e dei santi dei vari ordini. Il santo più importante è sicuramente Padma Sàmbhava, portatore del Buddhismo in Himàlaya. Le sue raffigurazioni si riconoscono subito per l'abbigliamento principesco e per il caratteristico cappello che tiene in capo. Inconfondibili sono i baffetti ed il pizzo a mosca. Nella mano destra impugna il vajra e con la sinistra sorregge il cranio-coppa (kapala); appoggiato ad un fianco tiene il khatvanga con crani e teschi umani. Nelle statue riproducenti il prezioso maestro, ma anche in quelle degli altri guru e grandi lama, si noterà che essi indossano numerosi abiti: una veste bianca che rappresenta il Vajrayana, poi l'abito da monaco dell'Hinayana, ed il tutto è quasi coperto da una cappa azzurra, da un mantello arancione e da un cappello che indicano la pratica del Mahayana. Padma Sàmbhava è talvolta affiancato dalle due mitiche mogli. 

I quattro mahasidda

Ogni chiesa pone i propri maestri, lama ed abati ad un rango così elevato da esser spesso pari ai vari Buddha del Vajrayana. I quattro mahasidda occupano un posto di preminenza nei templi dei Kagyupa. In virtù delle loro capacità di yogi essi si distinguono nettamente nell'iconografia ufficiale differenziandosi dai maestri successivi per la lunga capigliatura e per l'assenza della cuffia liturgica. Riallacciandosi all'episodio storico in cui il mahasidda Tilopa resuscitò alcuni pesci, il codice rappresentativo lo raffigura assieme ad uno di questi animali; il suo eminente discepolo Naropa sostiene con le mani una coppa ricavata da un cranio (tib.: kapala) e lo scettro tridente su cui sono infilate tre teste umane (tib.: khatvanga) simboli della vittoria sul mondo delle apparenze. Seduto su una pelle d'animale e spesso raffigurato all'interno di una caverna, Milarepa porta la mano destra all'orecchio per «ascoltare il proprio canto interiore» come racconta la tradizionale raffigurazione di questo squisito poeta tibetano (Sulla vita del più amato dei santi tibetani consiglio: J. Bacot (a cura di), Vita di Milarepa, i suoi delitti, le sue prove, la sua liberazione, ed.it. 1966 ed ovviamente il film Milarepa di Liliana Cavani), ed infine Marpa di Lhobrang, il traduttore, regge un libro simbolo di erudizione ed un kapala che indica la capitolazione dell'ego e la realizazione spirituale.